Nietzsche. Una lettura

di Antonio Francesco Perozzi

0.

Premessa: ciò che segue non è un ragionamento sulla filosofia. Innanzitutto, per il fatto che non sarei in grado di mettere insieme qualcosa che – qualsiasi perimetro si attribuisca al termine – possa dirsi filosofico. Ma, ancora più importante, nel senso che ciò che segue non si pone come obiettivo quello di dedurre, accertare o dimostrare definitivamente qualcosa; non si pone, insomma, il problema della verità. Di conseguenza, ciò che segue è un ragionamento sulla scrittura.

1.

Si dà il caso, però, – posso iniziare da qui – che l’oggetto del ragionamento che segue ha come problema specifico quello di stare contemporaneamente, proprio, nella filosofia e nella scrittura. O in un’intersecazione degli insiemi, in una zona grigia. Lo scorso inverno, senza un motivo a me chiaro, mi è venuta voglia di leggere Nietzsche. Ero in Calabria, per passare il Natale con mia nonna, e la Calabria era abbastanza irriconoscibile, per me che sono abituato a vederla d’estate: pioveva, e lontano non si distingueva il mare dalle nuvole. Forse è per meteoropatia, allora, che ho scelto come passatempo Night palace di Mount Eerie e la Genealogia della morale.

Il mio incontro con Nietzsche è stato uguale a quello di moltissimi: sentito nominare a scuola, la prima volta, letto a partire dallo Zarathustra, grande fascino, capito poco. Poi, negli anni di formazione intellettuale e politica – chiamiamola così, per spirito di sintesi – Nietzsche è diventato, ovviamente, un avversario; e lo è rimasto. Quando l’ho ripreso dalla Genealogia ho ritrovato perciò il torto che da sempre gli attribuisco (quello politico, in soldoni); ma ho ritrovato anche il torto di avere dalla sua una capacità di incanto scrittorio, la capacità di incidere attraverso la lingua. Questo è quello che ho capito, o che ho voluto capire fabbricando un mio dispositivo di lettura, a partire da questo neo-Nietzsche.

2.

In ogni caso, se in Nietzsche la scrittura e la filosofia si mescolano e trapassano a vicenda, conviene fissare prima qualche punto filosofico (ancora: in forma di annotazioni e idee). Dicevo del torto: mi sembra che nella Genealogia il pericolo nietzschiano della giustificazione della forza, e dell’azione morale come applicazione della forza (“tutta la morale aristocratica nasce da una trionfante affermazione di se stessi”), trova una sua massima espressione. Non entro nella questione dell’antisemitismo, che è troppo complessa per essere buttata in mezzo a questo flusso disordinato; ma il discorso della forza e quello dell’antisemitismo, si sa, hanno un certo margine di contiguità. Con la consapevolezza del Novecento che c’è stato in mezzo, credo che molte parti della lettura che di Nietzsche ha fatto Lukács siano ancora valide. Ad esempio:

Il nesso essenziale e l’aspetto sistematico sono costituiti appunto dal contenuto sociale del suo [di Nietzsche] pensiero: dalla lotta contro il socialismo. Se si considerano da questo punto di vista i mutevoli e contraddittori miti di Nietzsche, essi rivelano la loro ideale unità, la loro connessione oggettiva: essi sono miti della borghesia imperialistica per la mobilitazione di tutte le forze contro il principale avversario. Che la lotta dei signori e del gregge, dei nobili e degli schiavi, sia l’immagine mitico- caricaturale della lotta di classe, non è difficile da decifrare. […] La parte positiva dei miti nietzschiani non è altro che la mobilitazione di tutti gli istinti decadenti e barbarici dell’uomo corrotto dal capitalismo per salvare con la violenza questo paradiso del parassitismo; anche sotto questo aspetto la filosofia nietzschiana non è che il mito imperialistico opposto all’umanesimo socialista. Qui risulta forse ancora più chiaro ciò che prima abbiamo detto, e cioè che l’ideologia del decadentismo borghese è costretta alla difensiva.

G. Lukács, La distruzione della ragione

Al di là della – ma anche: attraverso la – puntualità della lettura marxista, insomma, l’ideale dei “forti” della Genealogia è un ideale difensivo, di chi avverte, più o meno inconsciamente, la trasformazione delle forze in campo, che lukácsanamente sono quelle della lotta di classe. E, in aggiunta a questo, usa il mito (il ritratto dei “forti” è chiaramente astratto e idealizzato) per giustificare la forza, che a un livello generale possiamo rifiutare nella forma della violenza e dell’oppressione, e a un livello specifico anche come benzina pompata a vantaggio di quell’imperialismo che, ancora con Lukács, sfrutta e a sua volta alimenta il pensiero irrazionalistico.

3.

Comunque. Se la giustificazione di una gerarchia morale, che è poi in trasparenza una gerarchia di classe, rappresenta forse l’aspetto politicamente più irricevibile della Genealogia, per contro la questione realmente, strettamente, morale ha un suo grado di attinenza, io credo, col presente. A partire proprio dal fatto che sia morale: per come si è sviluppata la nostra società dopo la morte di Nietzsche, e soprattutto negli ultimi decenni, poco alla volta il dibattito pubblico ha in larga fetta sostituito il fronteggiamento politico con quello morale, intendendo con questo un dibattito sui comportamenti che presume di essere indipendente dalle condizioni materiali.

In questo quadro, il ragionamento di Nietzsche a proposito di quello che lui chiama “ressentiment”, nonché quello a proposito della relazione tra colpa e debito, mi sembrano ancora vivi. In fondo si tratta, quanto al metodo, di relazionare economia e morale (“Il sentimento della colpa, dei nostri obblighi personali […] ha avuto, come abbiamo visto, le sue radici nel rapporto interpersonale più antico e originario che si sia mai dato, nel rapporto tra compratore e venditore, creditore e debitore”) e, quanto al merito, di riconoscere, come dire, una separazione tra l’essere umano e la vita, una separazione che apre lo spazio per forme di mediazione simbolica e morale (il debito, la giustificazione della vita, la colpa, il ressentiment). Diversi decenni dopo l’uscita della Genealogia è stato Deleuze a mettere in chiaro cosa distingue intimamente, sul piano morale, i “forti” e i “deboli” nietzschiani, discutendo – e i due binomi, con un’approssimazione lecita a questo scritto, si possono sovrapporre – l’opposizione tra “uomo tragico” e “uomo teoretico”, ovvero socratico e poi cristiano:

Da una parte la vita che giustifica la sofferenza, che afferma la sofferenza, dall’altra la sofferenza che mette sotto accusa la vita, che rende testimonianza contro di essa, che fa della vita qualcosa che deve essere giustificato. Che nella vita vi sia sofferenza significa prima di tutto, per il cristianesimo, che la vita non è giusta, che anzi, essa è essenzialmente ingiusta, che sconta attraverso la sofferenza un’ingiustizia fondamentale: poiché soffre, essa è colpevole. Ciò significa, in secondo luogo, che essa deve essere giustificata, ossia riscattata dalla sua ingiustizia e salvata, salvata in virtù di quella medesima sofferenza che or ora l’accusava: essa deve soffrire giacché è colpevole. Questi due aspetti del cristianesimo costituiscono quella che Nietzsche chiama la «cattiva coscienza», o l’interiorizzazione del dolore. Essi definiscono il nichilismo propriamente cristiano, ossia la maniera con cui il cristianesimo nega la vita: da una parte, la macchina per fabbricare la colpevolezza, l’orribile equazione dolore-castigo; dall’altra la macchina per moltiplicare il dolore, la giustificazione attraverso il dolore, l’immonda officina.

G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia

Insomma, la nuova morale si fonda sulla giustificazione – che presuppone una negazione, un problema – della vita, mentre la precedente sulla sua affermazione. Certo, come si diceva, Nietzsche idealizza questo secondo lato, quello della “aristocrazia”, e trasfigura il discorso a partire dalle sue paure (di classe). Tuttavia, mi sembra che – anche suo malgrado – il filosofo sia stato in grado di intuire un punto fondamentale del capitalismo e delle sue forme culturali. È del resto ormai celebre la relazione, weberiana, tra capitalismo e morale protestante:

L’ascesi protestante intramondana agì violentemente contro il godimento spensierato del possesso, restrinse il consumo, specialmente il consumo di lusso. Invece ebbe l’effetto psicologico di liberare l’attività lucrativa dalle inibizioni dell’etica tradizionalistica, spezzò le catene che avvincevano la ricerca del guadagno, in quanto non solo la legalizzò, ma ritenne fosse voluta direttamente da Dio […] La lotta contro la concupiscenza e l’attaccamento ai beni esteriori non fu una lotta contro il profitto razionale, ma contro un uso irrazionale della proprietà, come testimonia esplicitamente, con i puritani, anche il grande apologeta della setta quacchera, Barclay. Ma questo uso irrazionale stava anzitutto nell’alta considerazione di quelle forme ostensibili di lusso che, in quanto avevano il senso di divinizzare la creatura, dovevano essere condannate […] Di contro agli orpelli della pompa cavalleresca, che poggia su una base economica priva di solidità, preferendo una sordida eleganza alla sobria semplicità, propongono l’ideale della linda e solida comodità dello home borghese.

M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo

L’aristocratico disprezza l’attività lucrativa – ovvero, per indotto, il lavoro – mentre il borghese (il debole, il servo) disprezza la smodatezza e lo sperpero. Con questa radice morale, giustificatrice, il capitalismo si è riprodotto. E se è vero che questa morale si trasforma, e finisce nel tempo per sdoganare l’edonismo, come ha scritto Charles Taylor e come ha ripreso recentemente Guido Mazzoni, lo ha fatto comunque all’interno di un orizzonte che problematizza “il godimento spensierato del possesso”. Da un punto di vista, come dire, di “moralità del consumo”, il quadro politico attuale, anche italiano, mi sembra essere costituito da due posizioni che si necessitano l’un l’altra: quella berlusconiana dell’edonismo sfrenato e quella socialdemocratica e progressista dell’austerità. Sono possibili dialetticamente, e presuppongono al proprio fondo una domanda che chiede se la vita, e il desiderio, debbano essere giustificati o no. Lo stesso Mazzoni, d’altronde, inscrive la storia del capitalismo nella storia dell’ascesa del Servo hegeliano, che è poi per molti aspetti paragonabile al debole nietzschiano:

La borghesia è, tra le altre cose, la prima classe dominante che lavora, la prima che abbia fondato il suo potere non sulla spada o sul libro, ma su un’attività che per millenni la cultura europea ha considerato inferiore se non infima […] i borghesi sono dei lavoratori; la loro ricchezza proviene da attività che sono alla lettera ignobili, cioè indegne di una persona nobile. […] Il Signore antepone la difesa del proprio valore all’autoconservazione e accetta il rischio di morire pur di mantenersi libero; il Servo giudica la vita più importante della libertà o dell’onore e, volendo conservarla a ogni costo, si abbassa a lavorare.

Guido Mazzoni, Senza riparo. Sei tentativi di leggere il presente

Se da qui, poi, si vuole aprire un discorso precisamente politico, all’interno di un disegno che vede la cultura borghese – soprattutto nei caratteri dell’individualismo e del consumismo – intridere tutti i livelli sociali, compreso quello che in un’altra stagione si chiamava proletariato, trovo opportuno rimettere sulla bilancia ciò che è stato scritto proprio qui, su Charta Sporca, da Andrea Muni, che partendo appunto dalla Genealogia arriva a proporre la disobbedienza all’io come forma di critica, e di contro-etica, al ressentiment.

4.

Lasciamo per il momento da parte, però, il discorso politico. Dicevo della scrittura. Finora ho fissato alcuni punti della Genealogia – che non sono ovviamente gli unici – a mio parere salienti e ancora oggi decisivi. Ho accantonato però la questione di come questi punti si coniugano in Nietzsche, ovvero attraverso quale lingua e quali costruzioni. Non c’è spazio qui per articolare il discorso in maniera estesa; ma è sufficiente procedere per esempi e suggestioni. Del resto, la questione della scrittura nell’opera di Nietzsche – soprattutto in riferimento all’uso dell’aforisma o al ricorso al mito e all’immagine narrativa – è da tempo dibattuta, e non sfuggì neanche a Lukács: La distruzione della ragione, anzi, dandosi l’obiettivo di mettere in relazione la trasformazione della Germania tra i due secoli e lo sviluppo dell’irrazionalismo in filosofia, non poteva che considerare, di quest’ultimo, anche la forma e le modalità del discorso; su cui il filosofo ungherese, chiaramente, in perfetta coerenza con il suo modo di applicare il marxismo, esprimeva un giudizio negativo.

Al di là di questo, comunque, e con la consapevolezza di come nel frattempo siano cambiati sia la scrittura sia il marxismo, c’è da domandarsi senza ridurre a una linea effettivamente troppo dritta (argomentazione non sillogistica verso irrazionalismo) quale sia il ruolo della scrittura in Nietzsche. Oppure, visto che il taglio non è dimostrativo ma, come dire, esperienziale: che cosa produce in chi legge. Sfogliando la Genealogia mentre pioveva sullo Ionio ed era uscito da poco Night palace ho ritrovato insieme al torto qualcosa di diverso dalla filosofia. Qualcosa di aggiunto. Faccio un esempio:

[…] essi pensano a ciò che per loro è la cosa più indispensabile: libertà da costruzioni, turbamento, fracasso, da affari, doveri, preoccupazioni; chiarezza in testa; danza, salti e volo dei pensieri; un’aria buona, limpida, chiara, libera, asciutta come quella delle alte cime, che rende ogni essere animale più spirituale e gli dà le ali; pace in ogni sotterraneo; tutti i cani ordinatamente alla catena, niente latrati di inimicizia e di villoso rancore; nessun tarlo di ambizione ferita; interiora umili e sottomesse, diligenti come macine di mulino, ma distanti, il cuore estraneo, al di là, nel futuro, postumo […]

F. Nietzsche, Genealogia della morale

Nietzsche sta argomentando sull’ideale ascetico (terzo saggio della Genealogia) e a un certo punto il discorso si rompe, subentra l’elenco. Un elenco immaginifico che buca la parete della logica, sposta il discorso dall’analisi morale e culturale al tuffo psicologico e soprattutto la scrittura dal sillogismo all’installazione. Il passaggio non è certo esente da una fascinazione verso il “poetico” per come oggi tenderemmo (almeno io, almeno alcuni) a criticarlo, ovvero come espressivismo e slancio verticale: l’aggettivazione multipla, le immagini “innalzate” (“danza, salti e volo dei pensieri”, “alte cime”…), in generale l’afflato lirista li ascriveremmo – giocando un po’ con la storia e le letterature – a un universo di espressioni che sarebbe da problematizzare (se non smantellare). Eppure basta ricollocare questo passo nel discorso per vederne lo straniamento: uno dei passaggi più belli, accesi ed “empatici” della Genealogia è dedicato proprio a un bersaglio polemico, appunto a quell’asceta che (qualche pagina dopo) si dice trattare “la vita come una strada sbagliata”. Non significa niente su un piano logico, non sono in grado di riconoscere auto-travisamenti dell’autore. Dico solo che a un certo punto il discorso sembra sfuggirgli di mano e la scrittura esondare dalla filosofia.

5.

Il punto non è infatti ammirare la filosofia che diventa “poesia”, in senso regressivo. Recentemente ho recuperato anche Il cosmo e le sfide della storia di Karl Löwith, allievo eretico di Heidegger, che – a ragione – criticava all’ex-maestro la piega “mistica” che a una certa altezza aveva preso il suo linguaggio e si chiedeva se fosse possibile “prendere in rigorosa serietà questo gioco di pensieri fatto con parole senza rendersi ridicoli di fronte a se stessi”. Il punto, semmai, è provare, da questa valle della storia, a entrare nelle diffrazioni di ciò che è stato scritto. L’elenco, del resto, l’immaginifico, sono soluzioni pirotecniche: il testo lì si spacca in crepe visibili da chilometri, si interrompe, quasi. Ma ci sono meccanismi più sottili, sotterranei, tramite cui la scrittura può andare in contropiede alla propria stessa argomentazione. Ecco un campione:

La giustizia […] finisce, come ogni cosa buona sulla terra, per annullare se stessa

F. Nietzsche, Genealogia della morale

Come ogni cosa buona sulla terra. Nietzsche qui sta discutendo il rapporto tra colpa e debito, il discorso è preciso, ma a un certo punto un innesto lo smaga, trapassa la dissertazione e convoca nell’esperienza della lettura altre pragmatiche testuali. Perché la postura apodittica, “non falsificabile” – per dirla alla Popper – in quanto posta senza argomentazione, ha a che fare con altri usi della scrittura, diremmo non scientifici, ma diremmo soprattutto critici. Ovvero che stanno nella crisi. Ovvero che mentre avanzano un discorso avanzano anche un discorso parallelo, e talvolta contromano al primo, sulle condizioni del discorso, quindi della lingua e della logica. La filosofia e la scrittura.

6.

Arrivato a questo ragionamento, comunque, risfogliando il libro sulla scorta di questi nuovi e retroattivi significati, mi sono accorto che forse di questo aspetto introduce una spia proprio Nietzsche, nell’introduzione. Lui parla di “ruminare”, “una cosa che al giorno d’oggi si è disimparata più di tante altre” e propone l’aforisma, in fondo, come il contrario della sentenza, ovvero come qualcosa che “non è ancora ‘decifrato’ per il fatto stesso di venire letto”, semmai qualcosa che, enunciandosi, dà inizio alla propria “interpretazione, cosa per la quale occorre un’arte dell’interpretare”. Non una verità che viene fissata, quindi, non la brevitas come capacità di sintesi e memorabilità; al contrario una rastremazione che slega la proposizione al punto da renderla traslucida, richiede gli si venga costruito un discorso attorno, un utilizzo.

Queste considerazioni, dicevo, sono indipendenti da Nietzsche – la cui modalità specifica di scrittura, tra l’altro, insieme a quella di altri filosofi europei di vari indirizzi (citavo Heidegger, possiamo aggiungere Derrida) è da tempo criticata da aree filosofiche (anch’esse di vari indirizzi) che rivendicano la necessità di un linguaggio analitico e rigoroso. Io non sono in grado di avanzare nessuna proposta critica o filologica puntuale su di lui, e del resto la Genealogia è solo un libro che mi è capitato. Come tutti gli altri. L’ho letto e mi sono reso conto di quanto agissero questi due livelli, nel testo, e di quanto essi oggi – superato anche dal lato marxista un certo determinismo assoluto tra struttura e sovrastruttura, in cui pure Lukács poteva cadere – spesso non vengano visti, e proprio, significativamente, dal mondo letterario. Di solito la condizione a priori è che il testo sia mimetico di se stesso, ogni parte una sineddoche puntuale dell’opera. E invece, a partire da qui, in un contesto letterario (specie italiano) in cui anche il romanzo tende a sviluppare pedissequamente la propria tesi – magari per posizionarsi meglio nello scaffale, per potersi spendere nel discorso attuale, nei tag attuali – ho pensato a quanto possa essere vitale, per la scrittura ma anche per il pensiero e per la politica, l’ombra che fa slittare il sillogismo. Il discorso che non si fida fino in fondo della tesi che sviluppa. Insomma, l’intaggabile. E l’inattuale, a questo punto.

*Immagine di copertina tratta da Wikipedia (“Sunrise with Sea Monsters” di J. M. W. Turner, Tate Britain, Londra), crediti qui.

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