Se la scuola è il riflesso di una società

di Francesco Bercic

fotografia di Arno Senoner

È stato molto interessante osservare le reazioni dell’opinione pubblica da una parte e della schiera di intellettuali dall’altra agli “sconcertanti risultati” (usando le parole di Repubblica) maturati nelle prove Invalsi dello scorso anno scolastico. Parlo da diciottenne, ma prima ancora da studente di un liceo scientifico, e ancor prima da italiano: perché, cercando di inquadrare il discorso nella sua profondità, svuotandolo di quella retorica pseudo-patriottica (“cosa ne sarà della povera Italia?”, eccetera), è evidente che il problema coinvolga in primo luogo il nostro Paese, le sue palesi difficoltà e il suo futuro non roseo.

Sorvoliamo sopra le specifiche analisi dei risultati (che si possono facilmente consultare in diversi articoli), e poniamoci una prima, grande domanda: cos’è, esattamente, che si è perso nella scuola italiana? Certo, la possibilità di “formazione” di individui, le competenze matematiche, anche quelle linguistiche. Ma che significato ha questa perdita, oltre a gravare sul futuro materiale dei giovani? Che significato ha, ancora, la parola “formazione”? E questo fallimento è davvero un unicum o è parte di una crisi più ampia, di un’involuzione di massa, della regressione di una società?

Ecco, interroghiamoci allora sulla parola “formazione”, che altro non significa se non parlare del senso di un’educazione e quindi della scuola nel suo complesso. Al proposito, brillante è stato l’intervento di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere, che parla di un’incapacità “di educare le nuove generazioni, dare loro una misura e un retroterra, e quindi un orizzonte di senso per l’oggi e per il domani; riempire di un contenuto positivo di attesa e di speranza gli anni d’apprendistato che esse vivono” (editoriale del 15 luglio). È chiaro dunque che i risultati specifici degli Invalsi rivelino una dimensione della questione, quella più sfacciatamente problematica: ma è altrettanto intuibile come questa sia solo la punta dell’iceberg. Ciò che sta sott’acqua, il versante nascosto che Galli della Loggia prova a sfiorare è però quello più drammatico, perché evolve nel silenzio quasi completo, surclassato per l’appunto dalla dimensione pratica del problema, dalla crisi materiale che profetizza l’Invalsi.

La scuola è sempre meno capace di misurarsi entro una dimensione umanistica dell’istruzione, nel senso ampio della parola; la possibilità cioè, per un alunno, di crescere e appunto formarsi al di là dell’avviamento al lavoro o all’università, di sviluppare una maturità e una padronanza di sé che esulino dalla sfera meramente retributiva. Questo infatti sarebbe il senso di una vera formazione, appunto dare forma ad un individuo in tutta la sua complessità, districandosi fra parole ormai desuete come morale e vocazione.

Proviamo a fare un passo in avanti: come si misura tale fallimento? Per le personal skills c’è l’Invalsi, ci sono le prospettive lavorative, i numerosissimi dati a nostra disposizione. Con cosa si dimostra invece questa decadenza, oltre a citare soprusi e vizi giovanili, che però (da sempre!) attanagliano le generazioni più giovani?

La catastrofe educativa si nasconde fra le pieghe della nostra società. È un circolo vizioso: la scuola condiziona la società che verrà, ma è a sua volta condizionata, ovviamente, dalla società in cui si sviluppa. I limiti, i valori che l’istruzione mette a disposizione non possono essere altro che i valori, le idee e la cultura della società che la circonda: interrogarsi sulla scuola di oggi significa interrogarsi su quella massa indistinta protagonista del nostro presente, e di cui facciamo inevitabilmente parte.

Siamo incapaci di riconoscere la vera crisi educativa poiché quella crisi si riflette, in ultima analisi, proprio in noi, nella miseria del nostro dibattito pubblico, nella pochezza della classe politica, nell’assenza di una classe dirigente – ma anche e soprattutto nell’interpretazione, e dunque nell’applicazione, di alcune idee fondative di una società liberale.

Il punto fermo è infatti la perdita del legame da parte della scuola (della società) con una parte della tradizione liberale, nella valenza che assumono, nell’impianto educativo di oggi, certi suoi princìpi. Una cultura, la nostra, che non li rifiuta ciecamente, bensì continua a replicarne le forme non riuscendo più a coglierne la sostanza.

Un primo grande esempio è fornito dal concetto di uguaglianza. La cosiddetta democrazia scolastica, invece che spinta propulsiva verso il riconoscimento meritocratico del talento, è diventata un livellatore formativo, che adegua gli studenti ad uno standard, che confonde l’uguaglianza delle opportunità con l’appiattimento dei risultati.

La scuola, ancora, con i suoi progetti e le sue iniziative, spesso non incentiva il dibattito (sempre più limitato a singoli interventi dei docenti), quanto piuttosto lo inibisce in ipocrite discussioni delle quali la nostra generazione è sempre più stufa. A quanti convegni ho assistito da alunno, siano questi sul razzismo o sulla Shoah, senza dubbio giustissimi durante i primi anni, ma che alla lunga limitano qualsiasi argomentazione a slogan ormai svuotati di ogni profondità.

Un altro esempio riguarda l’interpretazione, nientemeno, del concetto di libertà. La libertà di cui godo da studente (e da “ggiovane”) non è probabilmente mai stata così ampia. Da una società che per la gran parte era adulto-centrica, con spazi di manovra per i figli quasi nulla, s’è arrivati al suo opposto, a una società di bambini in cui ognuno s’abitua a fare quel che vuole, e nella quale qualsiasi aspetto della vita che evada minimamente dal mio individualismo viene tacciato come bigotteria d’altri tempi, come un limite di cui non si sa che fare.

Nella prefazione al libro Le Furie di Piovene, Guido Ceronetti scriveva che la libertà è diventata come “un’amante troppo sbattuta”. Ed è effettivamente così: sono talmente libero che non m’accorgo più di esserlo, e faccio i conti con una vita che, paradossalmente, non fa che dirmi l’opposto, non fa che mettermi di fronte alla mia impotenza. La totale assenza di un limite porta alla perdita di significato della libertà, usurpata appunto della sua radice e tuttavia sempre tirata in ballo, sempre evocata a mo’ di sancta sanctorum.

Educare all’uguaglianza e alla libertà non significa risolvere quesiti metafisici quanto piuttosto, attraverso tutte le materie di un programma scolastico, confrontarsi con realtà più grandi delle proprie, e dunque risalire quel fiume della storia da cui disperatamente vogliamo separaci. Significa, in ultimo, educare alla conoscenza, che deve infrangere le barriere della singola persona per coinvolgerla più in profondità rispetto alla mera interiorizzazione di competenze. Questo è possibile solo se la scuola prende sulle proprie spalle questa battaglia, se ha il coraggio di sfidare lo sdegno e il rifiuto di una società verso l’humus nel quale è cresciuta.

Altro che educazione civica, cittadinanza, convegni ministeriali, basterebbe dare un’impronta diversa a tutte quelle materie umanistiche relegate ormai ad una passiva presenza, idee troppo distanti e quindi incapaci di trasmetterci alcunché. Basterebbe comprendere, in fondo, che sono proprio la storia, la filosofia, la letteratura, a civilizzare un individuo, facendolo dialogare con chi prima di lui ha teorizzato, romanzato, vissuto quelle idee sopra descritte. Basterebbe ridare linfa al loro significato, capire che le materie umanistiche sono ben di più che semplici “competenze linguistiche” – ma questo come detto, significherebbe andare oltre noi stessi, aggirare lo stallo culturale che ci paralizza da anni.

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