Terza pagina. “Lettera di accompagnamento a gatto bianco”

di Davide Rossi

Nonostante la mia allergia ai gatti, misteriose circostanze mi hanno portato a diventare, da un giorno all’altro, il padrone di un piccolo felino bianco – che al momento girovaga per il mio appartamento, spargendo per il salotto la causa dei miei starnuti, e dei miei incubi. Ho deciso di traslocare, a causa dell’insostenibilità di fastidiose situazioni che continuano a verificarsi nello stabile in cui vivo e di conseguenza, per riappropriarmi della mia salute e dei miei nervi, ho deciso di dare via questo gatto, nonostante l’affetto che ormai sento di provare per lui. Credo sia necessario informare chiunque si occuperà di questo animale, in merito agli strani accadimenti che l’hanno fatto entrare nella mia vita. Ho bisogno di trovare il senso dietro a tutta questa faccenda.

Tutto è cominciato con l’arrivo del nuovo condomino. Si era appena trasferito nel nostro palazzo, e mi capitava di incontrarlo ogni giorno. Sto parlando di un uomo sulla sessantina, alto e robusto, e con un fastidioso ciuffo di capelli – sempre sudati – che gli cadeva davanti agli occhi. Da quando si era insediato, lo incontravo sempre al portone d’ingresso. Io tornavo a casa, mentre lui andava al lavoro, ogni giorno in orari diversi, come se i suoi turni cominciassero in concomitanza del mio ritorno a casa.
Ad ogni incontro, un educato saluto ed una – non sempre – breve disquisizione su qualche generico argomento di attualità. Ma la cosa strana avveniva subito dopo, ovvero quando dovevamo effettivamente allontanarci. In quel momento, il condomino mi ricordava sempre che stava andando a lavorare – e fin qui, solo il semplice sfoggio di umano orgoglio per la propria utilità – ma subito dopo doveva specificare il mestiere che stava andando a compiere, e quello cambiava ogni giorno. Ma era il suo stato, assieme al surrealismo di questi incontri, a farmi salire su per le scale con un grande punto interrogativo nel cervello.
Egli mostrava una sfrontata tranquillità nel raccontarmi ciò che stava andando a fare, certo che io avrei accettato qualsiasi fandonia. Mi sembrava come se, nella sua testa, avessimo stipulato un accordo per cui io, credendogli, lo avrei aiutato a credere in ciò che stava raccontando, così che magari, prima o poi, una di quelle fandonie si sarebbe realizzata.
Questo strano fatto si stava ripetendo quotidianamente da un paio di settimane, e la curiosità in me, che era solita esaurirsi nel momento in cui infilavo la chiave nella toppa, sembrava adesso amplificarsi una volta chiusa la porta alle mie spalle. Era come se, in qualche modo, quell’uomo entrasse in casa con me, e passasse delle ore a guardarmi. Di conseguenza fallivo nell’applicare la mia regola monastica, secondo cui il mio interesse per le faccende altrui doveva cessare col sopraggiungere del mio relax – salvo emergenze, s’intende.
Quando mi capitò di sognare quell’uomo, capii che era giunto il momento di agire per riappropriarmi della mia serena misantropia. Mi stava guardando negli occhi con il suo ciuffo di capelli sudati sulla fronte, e rideva, sadico, mentre declamava ansante il suo surreale curriculum, provando una strana eccitazione sessuale.
Mi svegliai nel cuore della notte con un fastidioso mal di testa. Intuii che solo scoprendo la verità, sarei riuscito a cacciarlo dal mio subconscio, a calci. Il giorno seguente l’avrei seguito.
Quella mattina mi disse che lo stavano aspettando in una cooperativa “per accompagnare i ragazzi dalla psicologa” – mi colpì questa balla così specifica e così generica nello stesso momento, considerando che il giorno precedente aveva detto di dover togliere dei prosciutti dall’essiccatoio di chissà quale salumificio. Dopo avergli augurato buon lavoro, gli diedi le spalle e iniziai a salire le scale, aspettai qualche secondo, controllai che fosse effettivamente uscito dal palazzo, poi uscii anch’io.
Cominciai a seguirlo, attento a non farmi scoprire. L’uomo si addentrava sempre più nel centro città, rendendomi l’operazione più semplice del previsto. Sembrava conoscere un bel po’ di gente, veniva salutato spesso. Lui ricambiava ogni saluto senza mai mancare di chiedere “come stai caro?” o “tutto bene cara?” sempre con la medesima intonazione. Prese un caffè al banco in un bar poco frequentato, scambiò qualche parola con il barista poi uscì.
Si fermò qualche istante per guardare l’orologio, e una volta letta l’ora, riprese a camminare, a passo svelto. Mi parve evidente che fosse in ritardo. Andava sempre più veloce, senza mai azzardarsi a correre, forse per non dare nell’occhio. Raggiunse una fermata dell’autobus, si fermò, e di nuovo guardò l’orologio. Dal sollievo che dalla distanza riuscii a notare sul suo volto, doveva essere arrivato in tempo. A questo punto mi chiesi cosa fare. Raggiungere la fermata sarebbe stato troppo rischioso, salire sull’autobus ancora di più. E se mi avesse visto?
Mi rendo conto, a distanza dal fatto, che si trattava di uno scrupolo insensato, dato che, da libero cittadino, io posso andare dovunque e come mi pare, posso entrare e uscire di casa in continuazione senza doverlo spiegare a nessuno, però la situazione della caccia all’uomo mi aveva suggestionato a tal punto da convincermi che anche la mia preda stesse agendo di nascosto da me, e anche un minimo incrocio di sguardi fra noi sarebbe stato fatale.
Decisi che avrei aspettato l’arrivo del suo autobus, per scoprire almeno in che direzione andasse, prima di tornarmene a casa. Quando arrivò, però, l’uomo non accennò a voler salire. Guardava dentro al mezzo attraverso le porte aperte, finché fece un cenno a qualcuno che non potevo vedere.
Scese una vecchia signora. Lei portava con sé una scatola di scarpe e un sacchetto della spesa dal quale spuntava una qualche verdura lunga, come un sedano – oppure un porro. Lei e il mio condomino si salutarono, scambiarono alcune parole, guardandosi intensamente negli occhi. Poi la donna scoppiò a piangere.
Lui, imbarazzato, la abbracciò, ma lei, non aspettandosi questa reazione, si svincolò subito. Si ricompose in fretta, gli consegnò la scatola e il sacchetto e se ne andò senza girarsi, come se non volesse sapere più nulla di quella situazione. La mia curiosità divenne indomabile.
Nel seguire l’uomo, le domande che rimbalzavano nel mio cervello erano cambiate. Era evidente che la questione professionale dovesse passare in secondo piano. Adesso era comparsa una misteriosa scatola di cartone chiusa, e una vecchietta disperata, forse spaventata da qualcosa. Per non parlare della questione di quel sedano – o quel porro – che ancora non ero riuscito a distinguere.
Giuro che non mi era mai capitato di seguire una persona – tra l’altro semisconosciuta – prima di allora. Era come se fossi entrato in una spirale che dal mero desiderio di pettegolezzo, vorticosamente mi stava attraendo verso una massiccia verità oscura, nascosta da quell’uomo al quale ero legato. Un legame nato senza motivi materiali o razionali, ma solo dal mio presentimento.
L’uomo aveva ripreso a camminare in direzione opposta a quella della signora, e nonostante il passo tornato tranquillo, vidi la sua sospettosità aumentare. Aveva cominciato a guardarsi intorno. Dovetti mantenermi ad una distanza maggiore per non farmi scoprire. Lo vidi entrare in un vicolo a forma di L, molto stretto. Lo raggiunsi, ma mi fermai all’angolo, e mi sporsi quel poco che bastava per vedere quel fondo cieco.
Trovai l’uomo in ginocchio, con le mani protese verso la scatola chiusa appoggiata a terra. Sembrava compiere una sorta di rituale. Ad un certo punto, estrasse il sedano – adesso non avevo più dubbi – dal sacchetto che aveva appoggiato accanto a sé, e si mise ad accarezzare dolcemente la scatola con le foglie di quell’ortaggio.
Compiva quest’azione con una precisione ipnotica. Poi aprì la scatola, e ne estrasse quella verità oscura che mi aveva attratto fin lì. Dentro c’era un gatto di piccole dimensioni, completamente bianco. Quel gatto. Solo che in quel momento, l’uomo, lo stava estraendo dalla scatola morto. Era evidente per me. Non saprei dire da cosa l’avessi capito. Credo sia una cosa che si percepisca, la morte. Doveva essere stato investito, o peggio.
Appoggiò il piccolo cadavere a terra e cominciò ad accarezzarlo a mani nude, tenendolo a pancia in su, sussurrando delle parole che non potevo comprendere. Afferrò una zampetta e la fece roteare lentamente in senso orario, continuando a ripetere quella formula, finché non mollò la zampetta. Ma quella non cadde a peso morto al suolo, rimase rigida verso l’alto.
Era un’allucinazione la mia? Stavo assistendo ad una seduta chiropratica per gatti morti? Non sapevo se dovessi chiamare le forze dell’ordine, o qualcuno. Quell’uomo stava facendo qualcosa di molto strano, ma non credo si potesse definire crimine. Come potevo avere la certezza che non stesse preparando qualcosa di pericoloso? Pericoloso per chi, poi? La mia bussola razionale era impazzita. Avevo raggiunto il polo nord magnetico del mio raziocinio.
L’uomo aveva ripetuto la stessa azione con tutte e quattro le zampette, che ora se ne stavano ritte verso l’alto, come un bambino che chiede di farsi prendere in braccio. Non riuscivo a staccare gli occhi da quel piccolo corpo peloso.
Accadde poi, quello che non doveva succedere. L’uomo si alzò in piedi, e le zampette dell’animale caddero nuovamente al suolo come morte. In quel momento pensai che doveva trattarsi di un altro passaggio del rituale.
Però l’uomo si girò, e mi guardò negli occhi. Dentro quegli occhi io vidi sangue e fuoco. Nell’affondare nel suo sguardo, oltre il ciuffo sudato, non trovai nulla di quell’uomo incontrato al portone d’ingresso del mio palazzo.
Non disse nulla. Iniziò a camminare verso di me. Sempre più veloce. Si mise a correre, allungò un braccio.
Scappai. Corsi come mai prima nella mia vita. Non sentivo lo sforzo, non sentivo il fiato, non sentivo il mio corpo. Ero diventato una massa di adrenalina pura, in movimento verso un luogo il più lontano possibile da quell’oscurità.
Tornai a casa. Mi chiusi dentro e non uscii per una settimana. Mi diedi malato. Non riuscivo a pensare a nulla se non a quegli occhi di fuoco. Non trovavo una soluzione al fatto che anche lui sarebbe tornato al condominio, e sicuramente ci saremmo incontrati sulle scale, e chissà, forse avrebbe tentato di uccidermi.
Voleva farlo? Non ne avevo certezza. Di certo non trovavo motivi pseudo-razionali per cui la mia esistenza in vita potesse interferire con l’aldilà dei gatti – qualora esistesse e qualora il mio condomino fosse una sorta di esorcista specializzato in felini.Forse avrei dovuto chiamare la polizia e raccontare di quel gatto morto, della vecchia, del sedano. Fu in quei giorni che valutai di contattare la protezione animali in forma anonima. Se quell’uomo in realtà avesse voluto parlarmi? O chiedermi aiuto?
Non ho idea di cosa volesse da me, so solo che durante quella settimana, qualsiasi rumore sentissi fuori dal mio appartamento subito immaginavo che fosse lui. Che mi ascoltasse da fuori. Che mi aspettasse.
Una notte ho sognato di appoggiare l’occhio sullo spioncino e mi spaventai a morte nel rivedere quell’iride infuocata. Il sogno fu talmente lucido che a volte mi vengono i brividi pensando che forse sia successo davvero.
Il giorno in cui trovai il coraggio di uscire di casa, inciampai in un oggetto che era stato appoggiato fuori dalla mia porta. Mi salì una scossa per il collo quando la riconobbi. Era la scatola che avevo visto nel vicolo. Quando la scansai con il piede, cominciò a scuotersi.
La aprii: dentro c’era quel piccolo gatto bianco, più vivo che mai. Lo presi in mano, per verificare come stesse – stava benissimo, in base alle mie inesistenti competenze veterinarie – e subito vidi che sul fondo di quella scatola c’era una lettera, intrisa di pipì felina. Credo l’avesse scritta quell’uomo, ma non ne sono certo. Vi era scritto, a mano:

Ti ha scelto.
Sappi che non lo perderò di vista.
Al momento giusto, tornerò a prenderlo.

Io, quell’uomo, non l’ho più incontrato nel palazzo. Girano delle voci tra i condòmini. Dicono di aver visto delle persone venire a prendere della roba dal suo appartamento. Qualcun altro invece dice che in casa sua non ci sia niente, nemmeno il letto. La mia vicina è convinta che fosse un attore famoso di altri tempi, molto ricco, e pensa che se ne sia andato a girare qualche film. Al nostro amministratore di condominio non risulta nessun trasferimento.
Io invece, adesso sono certo che sia lui l’origine dei suoni che sento fuori dalla mia porta, anche se non ho nessuna prova per dimostrarlo, se non questa storia assurda. Sta di fatto che non riesco più ad addormentarmi la notte, e sono costretto a ritagliarmi dei momenti di sonno durante il giorno. Amici e parenti, consci non soltanto del mio problema medico, ma anche della particolare antipatia che provo per questi animali, naturalmente hanno cominciato a tartassarmi con domande sul perché e sul come questo gatto sia entrato nella mia vita.
Io, ovviamente, non glielo racconterò. Non mi crederebbero, o peggio. Penserebbero che non reputi la loro amicizia abbastanza sincera da fargli conoscere una verità più confacente al loro pensiero razionale. Ma un’altra verità non potrà mai essere la verità.

P.S. In fondo alla gabbietta ho lasciato la lettera trovata dentro la scatola. Non ho dato un vero e proprio nome a quell’animale. Ha cominciato a rispondere al semplice nome di “Gatto”.

*Immagine di Bulkan Evcimen (via Unsplash), qui il riferimento.

2 COMMENTS

  1. Racconto avvincente, ben costruito. Bello il linguaggio, ricco e fluente. Un prezioso ” di più ” i passaggi ironici.
    Grazie, mi è piaciuto e l’ho segnalato e fatto leggere. Dovrebbe pubblicare. Spero ne abbia altri ( alla faccia di chat gpt ).

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