Althusser, maledetto! I 30 anni dalla morte di un filosofo “folle”

di Andrea Muni

Non avendo un’esistenza veramente mia, un’esistenza autentica, dubitando di me stesso fino all’estremo […], non sono mai stato altro che un essere artificiale, fatto di nulla, un morto.
(Althusser, L’avvenire dura a lungo)

Trent’anni fa sei morto, Louis Althusser. Uno dei più grandi filosofi marxisti del secolo breve, uno di quelli che hanno dovuto vedere, e patire nella carne, il tramonto di un grande sogno. Sei morto pazzo, graziato parzialmente da una supposta infermità mentale attribuita a un delitto tra i più orribili che una persona possa commettere. Un femminicidio brutale, a mani nude, che hai raccontato nelle tua toccante e sconcertante autobiografia postuma L’avvenire dura a lungo (Guanda, 1992). L’omicidio della persona che si ama, l’omicidio di chi non possiamo accettare di perdere. Se non è follia questa… Hai ucciso una grande donna, e lo sapevi. Una donna che non meriterebbe di essere ricordata sempre e solo all’ombra del tuo nome e del tuo crimine, una donna sopravvissuta alla resistenza che ha dovuto soccombere alla violenza del tuo amore malato. Sono anche i quarant’anni dalla sua scomparsa, ed è giusto, prima di tutto, ricordare lei: onore alla memoria di Hélène Rytmann-Legotien.

Quello che cercavo era la prova, la contro-prova, della mia non-esistenza. La prova che ero già bello che morto a ogni speranza di vita e salvezza. Ma la mia autodistruzione doveva passare simbolicamente per la distruzione degli altri, compresa quella della donna che amavo più di ogni altra cosa.
(Althusser, L’avvenire dura a lungo)

Un comunista, un marxista, un filosofo sempre pronto a mettere in dubbio i propri presupposti. Sei diventato da un giorno all’altro un “maledetto”. Ma diversamente da un Bataille, che maledetto ci era nato, dopo quello che hai fatto tu sei diventato di colpo una vita “infame” che racconta se stessa e la propria derelizione. Eppure, Louis, non potevi resistere al richiamo di quella vita infame che avevi sempre saputo di essere, fin da quando lottavi con te stesso per non impazzire in quei quasi cinque anni (dai 21 ai 25 anni) in cui sei stato “gradito” ospite di un campo di prigionia nazista nello Schleswig. Fin da quando sei stato sbattuto al fronte a soli 21 anni e per altri cinque hai lottato con le malattie, col fango, con le torture probabilmente. Diciamo che era difficile non diventare pazzi, e restarlo per sempre, dopo una simile “vacanza” (per quanto questo non giustifichi in nulla il tuo atto, né tu la abbia mai preteso).

Oggi, Louis, sei considerato un “minore” da quell’apparato ideologico di Stato (di cui tu stesso facevi parte) che è l’università, salvo forse che in Francia (dove hai ancora alcuni blandi estimatori ed epigoni). Sei un minore nonostante tutti gli addetti ai lavori sappiano perfettamente che non ci sarebbe stato nessun Deleuze, nessun Derrida e nessun Foucault senza di te. Così come tutti gli addetti ai lavori sanno che non ci sarebbe stato nessun “secondo” Lacan a partire dal 1964, se tu non l’avessi letteralmente raccattato da in mezzo alla strada (dopo la sua esplusione dall’IPA) e non l’avessi introdotto alla École Normale, dandogli la possibilità di trovare un nuovo pubblico e di proseguire liberamente il suo insegnamento.

Non posso, e non voglio, fare uno sterile riassunto manualistico delle tue opere e del loro senso “in generale”… Louis, voglio dirti piuttosto che cosa sei per me. Sei il primo filosofo del Novecento, insieme a Bataille, che mi viene in mente quando penso ai rischi dell’autenticità e della franchezza, in filosofia (e non). Sei il primo filosofo che mi salta in mente quando penso al rapporto pericoloso che c’è tra filosofia vita e follia (che forse era al fondo della tua strana amicizia con Lacan). Tutti i veri filosofi devono aver paura, a un certo punto, di vivere prendendo sul serio quello che dicono. Perché vivere altrimenti è sempre folle, e doloroso.

Le filosofie “speculative” hanno politicamente interesse a far credere di essere disinteressate o semplicemente “morali”, e non realmente pratiche o politiche: per raggiungere i propri fini pratici all’ombra del potere costituito che esse sostengono con i loro argomenti. Che questa strategia sia “cosciente” e deliberata, o “incosciente”, poco importa: sappiamo che non è la coscienza il motore della storia, neppure in filosofia. Ricordate la definizione che ho proposto per la filosofia. Essa si può dunque estendere a ogni filosofia: la filosofia è, in ultima istanza, lotta di classe nella teoria. Se la filosofia è lotta di classe nella teoria, se essa dipende in ultima istanza dalla politica, essa ha, come filosofia, degli effetti politici. (Althusser, Lettera a John Lewis)

Dico questo perché tu, Louis, diversamente da tutti gli altri grandi post-strutturalisti, sei stato l’unico che ha fatto la guerra, l’unico a essere dichiaratamente marxista e, chissà, forse proprio per questo, anche l’unico a dire brutalmente cosa rimane di me, del mio essere di pensiero, una volta che lo faccio passare attraverso la graticola strutturalista. Solo tu, con una brutalità e una sincerità che sommate al tuo marxismo radicale ti hanno reso indigeribile a quasi tutti i tuoi contemporanei (Sartre compreso), hai detto a chiare lettere che il mio riconoscermi nel pensiero, nei miei pensieri, è l’effetto ideologico fondamentale, strutturale, dell’ordine del discorso capitalista. Solo tu hai compitato, scandito in maniera tale che anche i sordi potessero capirlo che il soggetto – questa cosa pensante in cui, senza nemmeno accorgermene, continuo istintivamente a riconoscermi e a interpellare gli altri – è l’elemento ideologico chiave, il punto teorico-pratico fondamentale che sta alla base della riproduzione degli apparati di sfruttamento e repressione capitalisti.

Il soggetto quale ancora oggi tutti lo intendiamo, cioè proprio il mio identificarmi con i miei pensieri e con il super-pensiero che li pensa: questo è esattamente il punto d’incontro tra la struttura (economico/sociale) e la sovrastruttura (culturale, politica, giuridica). Il luogo in cui i pensieri che il sistema capitalista mi caccia dentro a viva forza si fanno prendere per i miei desideri.

Non esiste ideologia che per dei soggetti concreti, e questa destinazione dell’ideologia non
è possibile che attraverso il soggetto; intendiamo con ciò: non è possibile che attraverso la
categoria di Soggetto e il suo funzionamento. […] Suggeriamo allora che l’ideologia “agisce” o “funziona” in maniera tale da “recrutare” dei soggetti tra gli individui (in realtà li recruta tutti), attraverso questa operazione precisa che chiamiamo interpellazione.
(Althusser, Apparati ideologici di Stato)

La psicosi è servita. Come non impazzire di fronte a una simile scoperta? E allo stesso tempo, come non essere già folli, e per la precisione psicotici, per farla e per comunicarla – questa scoperta, con un simile brutale candore. Certo, Louis, in fondo tu non hai fatto altro che prendere sul serio quello che scriveva Marx nell’Ideologia tedesca e nella Critica alla filosofia del diritto di Hegel. E questa è la psicosi, di solito i filosofi non lo fanno davvero. Non si prendono sul serio, non a vicenda. Eppure Marx è sempre stato lì, è ancora lì, e scrive a chiare lettere che tutto quello che conosciamo, dai meccanismi dello Stato all’esperienza della soggettività, tutto deriva da quell’esperienza capitalista dell’uomo che ormai vive in noi come una seconda natura. Ma assumere soggettivamente questa “verità”, questa bomba psicotica che mina alle fondamenta tutto quello che abbiamo imparato a essere, questo l’hanno fatto veramente in pochi… forse solo tu. Col tuo candore, con la tua follia, mi hai insegnato quanto costa prendere sul serio la filosofia, soprattutto quella che ami. Mi hai insegnato e mi ricordi sempre quanto sia necessario pagare con la vita ogni più piccolo atomo di verità per cui ci sembra giusto lottare.

Come tutte le evidenze, comprese quelle che fanno sì che una parola “designi una cosa” o “possieda una significazione” (e quindi comprese le evidenze riguardanti la “trasparenza” del linguaggio), questa “evidenza” per cui voi e io siamo dei soggetti – e che non sembra fare alcun problema – è un effetto ideologico, è l’effetto ideologico elementare. È in effetti la specificità dell’ideologia quella di imporre (senza averne l’aria, poiché si tratta di “evidenze”) le evidenze come evidenze che non possiamo non riconoscere, e di fronte a cui abbiamo l’inevitabile e naturale istinto di esclamare a noi stessi (a voce alta, o nel “silenzio della coscienza”): “È evidente! È così! È vero! (Althusser, Apparati ideologici di Stato)

La storia come storia della lotta tra le classi, che hai ripreso da Marx, e che in fondo non è altro che il materialismo storico preso sul serio, oggi non è più quella a cui pensavi tu. Ma sono sicuro che l’avresti visto, come già ti eri accorto (prima di tutti) che questa storia, la storia “proletaria” della lotta tra le classi, ha bisogno di accaparrarsi Freud e Lacan. Questa storia infatti oggi è la storia di come un discorso dominante, e non più un leader o un duce in carne e ossa, si è installato dentro ai soggetti concreti che, sfruttati, continuano a essere il motore cieco della storia. La lotta di classe oggi deve essere ripensata come una lotta collettiva attraverso cui ognuno di noi, a partire da pratiche comuni, combatte prima di tutto questo nemico interno, contro questo discorso dominante che si dibatte dentro di me, che mi possiede, che si fa prendere per “me stesso”. Si tratta di un discorso che non ci fa sentire reali, perché ne siamo semplicemente agiti, come marionette di carne, come Arlecchini che hanno disimparato a ridere. La tua psicosi te lo faceva sentire troppo forte, troppo bene, ed è per questo che forse nelle tue lettere scrivevi quanto ammirassi e invidiassi la spontaneità di tua moglie Helene. Poiché, Louis, tu la sapevi che il capitalismo, e gli apparati ideologici di Stato di cui parlavi, non smettono di sostenere e riprodurre senza sosta quell’idea di soggetto che lungo il corso della storia serve ai padroni per governare gli sfruttati. Tu lo sapevi, ma ti faceva troppo male, che lo sfruttamento capitalista comincia a livello del rapporto con se stessi, a livello di quel soggetto interiore che “mette al lavoro” il soggetto concreto della vita e della relazione. Lo umilia, lo cancella, non lascia di lui più alcuna traccia, finché un giorno diventa possibile svegliarsi e chiedersi francamente se si esiste, e cosa si è una volta che si rifiuta questa identificazione obbligata.

Nonostante la categoria di “soggetto” non appaia nella storia che a partire dall’ideologia borghese, e in primo luogo con l’ideologia giuridica, essa ha in realtà sempre funzionato sotto altri nomi (come nel caso dell’anima platonica, o del dio cristiano). È questa categoria [di soggetto] a essere costitutiva di ogni ideologia (regionale o di classe che sia), indipendentemente dalla sua data, perché [in questo senso] l’ideologia non ha storia.
(Althusser, Apparati ideologici di Stato)

Se è un discorso dominante ad essere il nuovo padrone, allora è proprio la logica di questo discorso che ci abita il primo vero nemico che dobbiamo aggredire, ben prima di dedicarci al progetto di assaltare fisicamente la banche e le sedi delle multinazionali. Questo discorso è il nemico interno che dobbiamo localizzare, individuare, con cura e pazienza, per non rischiare, come purtroppo hai fatto tu, di confonderlo con noi stessi o, peggio ancora, con le persone che amiamo. La nuova coscienza di classe, il nuovo “proletariato”, deve trovare delle forme di socialità e di prassi collettiva che producano, direttamente o indirettamente, l’aggressione e la rimodulazione di questa esperienza della soggettività. Deve oggi assumersi questo compito delicatissimo, perché in questa lotta si rischia, sbagliando appena un po’ la mira, di aggredire ciò che invece abbiamo di più caro. Tu, Louis, resterai per sempre un punto cieco, un tristissimo monito che ci ricorda i grandi pericoli che si corrono ogni volta che osiamo aggredire, sfidare il discorso dominante che struttura in profondità il nostro con rapporto con noi stessi e con gli altri. Produrre un nuovo discorso, una nuova logica, non solo della soggettività ma di qualsiasi attività umana, non è un compito teorico: è qualcosa che possiamo fare e che facciamo, spesso senza saperlo, a ogni passo delle nostre esistenze in comune. Solo questa consapevolezza potrà un giorno aiutare i pochi che ci credono ancora, a ripensare il comunismo non più come una utopica antitesi del capitalismo, ma come una via d’uscita da questo orrore di non esistere se non come uno schiavo di quel soggetto e di quei valori che mi sono stati marchiati a fuoco sulla pelle, che mi hanno penetrato, abusato, quando ero ancora troppo inerme per difendermi. Il comunismo ripensato come una possibile linea di fuga da ciò che l’ideologia capitalista ha fatto di me, il marxismo ripensato a partire dalla produzione di un’esperienza differente, comune, rischiosa della soggettività. Un azzardo, una scommessa a proposito di dove siamo davvero, che purtroppo tu hai perso, ma che noi possiamo rilanciare, a cui noi possiamo ancora credere, senza per questo chiudere gli occhi sui grandi pericoli che incombono lungo questa strada. Pericoli che la tua fine infame, e il tuo crimine orrendo, non smetteranno mai di ricordarci.

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