Comizi d’amore 2.0. I mattini grigi della “scienza sessuale”

di Andrea Muni

Digito su Google “sesso/scienza” e trovo, tra le voci più recenti, le seguenti: “L’uomo tace dopo il sesso, la scienza svela il perché” (Focus); “Il sesso fa bene al cervello, lo dice la scienza” (AGI), “Più scienza che arte: le verità inattese del sesso” (La Stampa), “Il segreto per la felicità, lo rivela la scienza: sesso e…” (Il Giornale e Il Mattino); “Più fai sesso più diventi intelligente, lo dice la scienza” (ADN Kronos); “Scienza in camera da letto: gli effetti del sesso sul cervello” (Repubblica). Perché sembra così importante che la scienza certifichi che il sesso “ci fa bene”? Non ci troviamo forse di fronte a un curioso impensato, se non addirittura a un disperato bisogno di scagionare e sdoganare “scientificamente” quel sesso rispetto a cui – sotto altri punti vista – non abbiamo mai veramente smesso di sentrici a disagio? Se il sesso (o meglio, l’erotismo) ha davvero smesso di essere un tabù come mai avvertiamo l’urgenza (e il desiderio) di dire, e di sentirci dire, dal discorso scientifico e dai media, che “ci fa tanto bene”?

Se invece digito su Google “sesso la parola ai giovani”, con ancora maggiore sopresa, tra le prime trenta voci, trovo quasi esclusivamente notizie riguardanti il mondo cattolico, tra cui spicca l’appello del papa (immancabile) a non fare sesso se non c’è amore. Questo appello si incrocia curiosamente con un articolo di Vice in cui un giovane ragazzo sostiene che i più giovani eviterebbero il sesso a causa della difficoltà a costruire relazioni sentimentali stabili. Secondo il giovane (che per altro è americano, e palesemente borghese) o il sesso viene svalutato a mera pratica “ginnica”, o è completamente evitato per non incorrere nel rischio di un innamoramento che non potrebbe essere in alcun caso – a causa dello stile di vita odierno – coronato da una relazione duratura. Se a tutto questo aggiungiamo i vari tentativi sensazionalistici – dal vago retrogusto pedopornografico – di rappresentare una situazione shock del sesso tra adolescienti (vedi il recente “scandalo” del liceo romano Virgilio, giustamente ridicolizzato da Zerocalcale, o il “reportage” di qualche anno fa della Borromeo sulle ragazze “doccia”), la carenza di un vero lavoro “sociologico” e genuinamente popolare intorno alla questione – come fu più di mezzo secolo fa quello di Comizi d’amore di Pasolini – si fa quasi assordante.

In quel documentario Pasolini fu infatti capace sia di evitare la sgradevole dimensione della confessione scandalosa, sia l’intimismo da boudoir, per approfondire invece – spesso anche nella sua profonda banalità – la percezione pubblica, e il rapporto privato, che gli italiani intrattenevano con l’erotismo nel lontano 1963. Quanto sarebbe bello e importante riprodurre oggi una simile inchiesta. E quanto sarebbe difficile replicare davvero, in questi tempi, quello spirito “di strada” e “di piazza” in cui – tra i risolini dei più piccoli, le allusioni dei più giovani e le discussioni dei più grandi – si consumavano le interviste del regista.

Tra i vari titoli menzionati in esergo uno più di tutti mi ha colpito: “sesso: più scienza che arte”. Questo titolo ricalca infatti curiosamente, e credo inconsapevolmente, la celebre distinzione tra arte erotica e scienza sessuale elaborata da Michel Foucault ne La volontà di sapere, primo capitolo della sua incompiuta Storia della sessualità. In questo testo Foucault, nel 1976, si confrontava con il fatto che nella nostra cultura il sesso è divenuto, a partire dall’illuminismo, più un oggetto della politica, della demografia, della scienza medica e della psicologia, che una questione – di interesse collettivo – collegata direttamente al piacere e all’incontro dei corpi. Nel distinguere questi due piani – arte erotica e scienza sessuale – Foucault osservava come nei discorsi pubblici, e persino in quelli privati, il sesso sia divenuto sempre più un oggetto neutro di studio e di interesse scientifico, arrivando a dire che il concetto stesso di “sessualità” esiste soltanto a partire dalla metà dell’Ottocento. Se infatti nell’antichità le grandi trattazioni riguardanti il sesso erano incentrate su come farlo bene, sul significato di questo “farlo bene”, e inserite all’interno di riflessioni più ampie di carattere spirituale, sociale e persino religioso (come il celebre Kamasutra o l’ars amatoria di Ovidio), l’odierno discorso pubblico – e culturale – sul sesso sembra totalmente avulso da simili questioni: non si comprende francamente se per pudore o per abbandono totale del campo. Al posto di queste riflessioni incentrate sulle modalità di dare e ricevere piacere, intimità e complicità è subentrata in Occidente – in particolare a partire dalla metà dell’Ottocento e dalla borghesizzazione della famiglia e della società – un morboso godimento della confessione e dalla scoperta “scientifica” delle verità riguardanti il nostro sesso e la nostra identità sessuale.

Un esempio, che riprendo da Foucault: prima degli anni quaranta dell’Ottocento la sodomia certamente esisteva, ma era punita – sia dalla chiesa, sia dal diritto – come pratica. Ciò che accade di inaudito a partire dagli anni quaranta dell’Ottocento, con Heinrich Khaan e tutta la successiva evoluzione psichiatrica della psicopatolgia sessuale, è che l’omosessualità – come tutte le altre “perversioni” stilate dai vecchi codici del diritto canonico – comincia a essere considerata “illuministicamente” una patologia del normale istinto sessuale. È per questa via che le persone che propendevano per incontri erotici con persone dello stesso sesso si trasformeranno rapidamente, da presunti peccatori e/o delinquenti responsabili di atti contro la morale, in dei “tipi umani” costituzionalmente e geneticamente dotati di una identità sessuale anomala, deviata. A mano a mano che l’atto in sé diviene giuridicamente depenalizzato e moralmente tollerato, il soggetto supposto a questo atto erotico sarà sempre più patologizzato (ricordiamo che l’omosessualità, come “patologia”, è stata espunta dal Dsm solo nel 1990).

Poco dopo aver dato alle stampe il primo volume della sua Storia della sessualità Foucault scrive nel 1977 un piccolo testo d’occasione proprio su Comizi d’amore di Pasolini, intitolato I mattini grigi della tolleranza, in cui il filosofo lascia intuire fino a che punto i giovani italiani dell’epoca (1963) scorgessero nella nuova tolleranza sessuale null’altro che un diverso modo, un modo nuovo, per indurli alla confessione – e all’omologazione consumistica – del loro sesso e del loro piacere. Solo pochi anni prima (1974) infatti, lo stesso Pasolini era insorto contro questa omologazione, che faceva della nuova coppia eterosessuale “libera” la più recente e perfetta preda della pubblicità e dell’edonismo contrabbandati da quel nuovo potere capitalista che, per il regista, rappresentava la vera e montante forma di nuovo fascismo che stava impossessandosi della società italiana.

Nello steso anno in cui Pasolini gira Comizi d’amore, Foucault scrive un’importante testo (Preface à La transgression) in memoria di Georges Bataille, da poco scomparso. Bataille è stato il filosofo che più di tutti, nel Novecento, ha riflettuto sull’erotismo. L’erotismo designa per Bataille la trasgressione di un limite, di quel limite (in vero inesistente) tra il dentro in cui ci illudiamo di essere e quel fuori dove, in realtà, siamo da sempre – da prima ancora di avere un’interiorità e di poter dire Io. L’erotismo è per Bataille il punto di rottura tra queste due illusioni: il me interiore e il mondo oggettivo che mi sta al di là. Nell’erotismo questa abituale idea che abbiamo di noi stessi, degli altri, del dentro e del fuori, si abolisce (sempre che abbiamo il coraggio di accorgercene, perché raramente l’esperienza di questa abolizione si dà senza angoscia). L’erotismo è una della condizioni privilegiate in cui posso rendermi conto che io – come gli altri – non sono né dentro né fuori di me, ma sul limite tra quelle due bugie che sono il “dentro” e il “fuori”.

Per un’erotica 

Una mano si inarca e danza nell’aria come una farfalla, le parole che la accompagnano si fanno più veloci, corrono e perdono di significato: sgorgano dalla bocca, come acqua da una fontana, tempera che si stacca dal pennello; le orecchie, e tutto il corpo, si trasformano in tela, un foglio bianco spalancato. Non stiamo più giocando a capirci, ma a volerci.

La voce, i gesti o i pezzi di corpo – che sono (e che proietto) in te quando voglio sedurti (o mentre stiamo facendo l’amore) – sono esattamente il luogo di questa soglia. Questa carezza, che ti do, non è la mia “interiorità”, eppure non è “fuori” di me: è dove io sono. Non solo, questa carezza, questo “atto”, che io sono, è al contempo anche lo specchio liquido attraverso cui io subisco la tua stessa passività. La tua pelle che trema (o che si distende) sotto la mia mano è già qualcosa che, pur nella sua passività, mi abita, mi viola, mi entra “dentro”.

Per cogliere meglio l’erotismo come esperienza-limite possiamo pensare a cos’è uno sguardo, inteso come oggetto, come esca, come strumento di seduzione: quello sguardo, che lancio a una persona che desidero, non è dentro di me, poiché è qualcosa di visibile, eppure non è nemmeno fuori di me: è ciò che io sono nei tuoi occhi.

Il godimento e l’angoscia, il sesso e la morte: non c’è nessuna maledizione in tutto questo. Non è rimuovendo in maniera fintamente illuministica l’intimo e vertiginoso rapporto tra questi due momenti fondamentali della vita umana – magari sostituendolo con la “benevola” esortazione della scienza e dei media a fare sesso perché “ci fa bene” – che godremo di più, né meglio. L’angoscia che si prova nell’essere oggetti (nel doppio senso attivo-passivo del termine) è infatti connaturata alla nostra “normale”, cioè abituale, esperienza della soggettività: è proprio questa (recentissima) esperienza della soggettività – che ci suppone un’interiorità programmante che si proietta nei gesti e nel corpo – che viene messa in pericolo dall’erotismo, scatenando “angoscia”.

L’erotica però non è solo il campo dell’oggettualità; non è solo il corpo che si frammenta e confonde, non è solo il non capire più dove finisco io e dove inizi tu. La cosa più importante è che, proprio per queste ragioni, essa è la chiave per una diversa esperienza di noi stessi e degli altri, che non ha nulla di misticheggiante, né di “spirituale” nel senso peggiorativo (o new age) del termine. Piuttosto, come diceva Bataille, l’incontro erotico – fuori dalla due modalità (romantico-fusionale o biologico-istintiva), che ne attutiscono l’angoscia (ma anche l’intensità) – è un’esperienza del limite che io sono; un’esperienza simile a quella che facciamo quando veniamo sorpresi a spiare qualcuno. La sensazione di essere l’unica cosa che – di una scena – non potevamo vedere: l’occhio che la guardava.

Quel qualcosa che ci manca, e che cerchiamo (forse, chissà, sempre meno) nell’erotismo, non è esattamente un oggetto fuori di noi, ma proprio noi stessi in quanto oggetti. Quello che ci manca, infatti, non è qualcosa di esterno, ma una parte di noi stessi… che solo l’incontro con l’altro può restituirci, fosse anche, al limite, l’incontro con quell’altro – eternamente “rimosso” – che è il nostro stesso corpo e le sue varie parti (come nel caso dell’autoerotismo, o in quello in cui suoniamo uno strumento musicale). La voce, che mi accorgo di essere, perché i tuoi occhi mi fanno capire che mi ascolti; quelle braccia, che finalmente posso sentire mie perché ti stringono, o ti accarezzano; l’immagine del mio volto, che non mi tormenta più come un rimprovero, e che scopro essere invece uno dei tanti modi in cui abito gli altri e addirittura – come quando mi scorgo riflesso nella pupilla del mio amante o di mio figlio, o più semplicemente nello specchio – me stesso.

Ci sono molte cose impossibili, come gli unicorni, l’esistenza di una sinistra veramente popolare e marxista in Italia, la fine della corruzione in politica; e poi ci sono altri “impossibili”, che ci sembrano tali perché le regole del discorso in cui siamo immersi ci costringono a considerali “illogici”. L’erotismo, l’amicizia, la genitorialità, la droga, specialmente se vissuta come un’esperienza condivisa (e al contempo profondamente “corporea”), sono tutti momenti della vita in cui si può sentire allentarsi alcuni di questi “impossibli” legati all’esperienza mutilata che abbiamo solitamente del nostro corpo, o meglio, del corpo che siamo. Si tratta di momenti ed esperienze capaci di restituirci un’esperienza del “mondo” che non rimanga costantemente e inconsapevolmente amputata di quella parte di noi stessi che sembriamo condannati a mancare strutturalmente e dolorosamente. Perché, forse, quello che ci manca non è un oggetto di consumo, né tanto meno una qualsiasi realizzazione narcisistica, ma una vera e propria parte di noi – un pezzo di corpo – che possiamo incontrare solo incontrando gli altri; “altri” tra cui rientra anche quello strano altro che (in quanto corpo) siamo per noi stessi; quella parte di noi stessi che, per quanto ci sforziamo, non potremo mai incontrare lì dove “pensiamo” di essere.

I corpi caldi
brillano, insieme
nell’oscurità.
La mano muove
verso il centro
della carne, la pelle
trema di felicità
mentre l’anima sale,
gioiosamente
fino agli occhi.
Sì, sì
questo è ciò
che volevo
che ho sempre voluto,
sempre voluto:
tornare al corpo
in cui sono nato.
(Allen Ginsberg, Canzone)

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