Una nave nella foresta. Herzog e la fame d’inutile

di Pierangelo Di Vittorio

*Questo testo è un montaggio di estratti dal nuovo libro di Pierangelo Di Vittorio Fitzcarraldo Fragment. Il sublime, la techne, il legame sociale (Efesto, Roma 2023), spin-off del suo precedente lavoro Ragione funambolica. Sull’utilità del pensiero per la vita (Mimesis, Milano-Udine 2021).

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Qual è il posto del gioco e del sogno nelle nostre società dominate dalla razionalità economica? Ecco la domanda che dovremmo porci. Soprattutto perché questo “posto”, proprio come accade per la follia e l’infanzia, è al tempo stesso compresso e dilatato, inibito e sollecitato. Il gioco come pratica abissale che rilancia indefinitamente la rischiosa conquista dell’inutile, tende a essere rimpiazzato dal gioco come attività domestica riservata al consumo massificato di svago e divertimento. Il sogno che fa breccia nella realtà interrogandoci radicalmente, facendo girare a vuoto il pensiero e aprendoci alla vastità delle connessioni cosmiche, è sostituito dal sogno banalizzato della finzione mediatica e spettacolare, il cui onirismo industrializzato produce conformismo, normalizzazione e consenso, finendo per accrescere in modo esponenziale il potere normativo della realtà.

Il film di Herzog Fitzcarraldo racconta la storia di Brian Sweeny Fitzgerald, che si fa chiamare Fitzcarraldo perché i nativi non riescono a pronunciare il suo nome, e che sogna di portare il Teatro dell’Opera a Iquitos, un piccolo villaggio sperduto nella foresta amazzonica, per farvi risuonare le note di Caruso. Il film è la storia di un sogno e di un’impresa. Ma la storia, dice Herzog, rischia di perdersi, se non capiamo qualcosa. Agli spettatori sfuggirà qualcosa di essenziale, per comprendere la storia raccontata nel film, se il film non mostrerà una particolare conformazione geografica del territorio: due fiumi limitrofi che si fronteggiano come in uno specchio e che sono separati da una catena montuosa. Perché quest’aspetto è così importante? Perché è un aspetto importante della storia stessa, si risponderà. E in effetti il passaggio della nave sulla montagna è ciò che dovrebbe permettere a Fitzcarraldo di aprire una nuova rotta del caucciù ed essere così in grado di finanziare la sua folle impresa. Tuttavia questa risposta non esaurisce la domanda. Che cosa rende quest’aspetto decisivo? Che cosa decide della sua “necessità” e come si rende necessario? Che cosa fa appello in esso? Qual è la sua posta in gioco? Herzog avrebbe potuto infatti ricorrere agli “effetti speciali”, tutti i trucchi che il cinema mette a disposizione per rappresentare quello che è difficile o impossibile mostrare. Avrebbe potuto realizzare un plastico, usare dei modellini. Herzog si è invece sempre categoricamente rifiutato di prendere questa strada. E da questa primordiale biforcazione la sua avventura cinematografica ha preso le mosse, su di essa ha perseverato. A partire da tale biforcazione, da quando una nave gli è passata per la testa, Herzog è stato obbligato a passare lunghi periodi nella giungla, rischiando di perdere, insieme alla nave, anche la testa. E di perdere il film stesso, essendo obbligato a confrontarsi con enormi problemi finanziari, e con un mondo che – “per il suo bene” – non si stancava di suggergli di abbandonare il progetto. Cioè di rinunciare al suo sogno. Ma Herzog dice che ciò avrebbe annientato la sua vita. Questo bisogna cercare di capire. Potremmo pensare che gli si chiedeva di rinunciare al suo sogno come si chiede a un bambino di rinunciare al suo giocattolo. Il sogno come giocattolo. Visione romantica e infantilizzante, cioè paternalistica, del problema. Il giocattolo che si dona, il sogno che si concede: al bambino perché è un “infante” e bisogna pazientare prima che diventi adulto; all’adulto perché magari ha voglia di restarlo ancora, ma può farlo solo per brevi tratti della sua vita e a patto che siano confinati in una riserva carnascialesca o in qualche zoo dello svago e del divertimento. Herzog ci fa invece capire che rinunciare al suo sogno avrebbe significato rinunciare alla possibilità stessa di sognare. […] Una vita senza sogni. Che non è una vita matura, finalmente emancipata dai giocattoli. È una vita bloccata nella sua identità statutaria, pietrificata da una colata di cemento che ostruisce ogni passaggio. Che preclude la possibilità stessa di passare, cioè di fronteggiare l’appello dell’impossibile provando a farvi breccia. Con il risultato di trasformare i limiti che fanno appello, nel muro di una sentenza senza appello, di una Legge inappellabile e sempre già scritta.

Herzog rifiuta di usare dei trucchi per mostrare quella particolare conformazione del territorio e il trasporto di una nave su una montagna posta tra due fiumi. Rifiuta cioè di “fingere” la stessa finzione romanzesca. Rifiuta d’investire il problema cruciale del film – il passaggio letteralmente “soprannaturale” di una nave su una montagna – raddoppiando la finzione romanzesca attraverso una finzione cinematografica. Rifiuta che il suo film sia una finzione cinematografica di una finzione romanzesca. Assumendo in tal modo – implicitamente, come una Legge non scritta e perciò tanto più vincolante – che la finzione romanzesca è l’essenziale. Che viene prima di tutto, e alla fine di tutto, e che assolve da tutto il resto. Ossia da ciò che sta nel mezzo. La narrazione che salva e il film al servizio del suo piano di salvezza. Il film nella pancia della storia. Herzog mette invece la storia nella pancia della nave. Invece di andare verso le luci dello spettacolo, lo spettacolo di una storia, si dirige oscuramente verso il cratere del Problema, da cui la storia potrà sorgere continuando a inabissarsi. Nel momento stesso in cui una nave gli passa per la testa, lasciandola passare va incontro al naufragio.

Inverandosi, la storia del film diventa prima di tutto la storia del suo farsi zattera, e del suo salvataggio da tutti i problemi tecnici, artistici, esistenziali e finanziari incontrati nel corso della sua realizzazione. Una storia che però resta nell’ombra, segreta. Storia underground, senza spettacolo. Storia a fari spenti, rischiarata solo dai lampi in chiaroscuro del lavoro di “documentazione” (il documentario di Les Blank e soprattutto La conquista dell’inutile di Herzog: reportage di un delirio nella giungla). In ogni caso Fitzcarraldo è la viva testimonianza che è possibile costruire un’opera a partire dal suo problematico buco. […] Come faccio – senza stare troppo a chiedermi perché lo faccio, da dove viene il mio impulso o il mio desiderio – a far passare una nave su una montagna? Cuore incandescente del Problema. Cerchio di fuoco attorno al quale – nel tentativo di attraversarlo facendo breccia nell’impossibile – tutto il film di Herzog si costruisce. Sfidare l’impossibile alla ricerca di un possibile. La nave che passa per la testa di Herzog lo porta immediatamente a confrontarsi con dei “limiti” spazio-temporali che appaiono, non solo ostili, ma oggettivamente insormontabili: la giungla in cui è costretto a vivere per affrontare la sua sfida, i tempi e i costi di realizzazione del film, gli aspetti relazionali e sociali connessi a tale realizzazione. Tutto contribuisce a far apparire la sua impresa assurda. In realtà ogni impresa, nella misura in cui è una sfida all’impossibile, porta immediatamente con sé il problema del trascendentale, ossia dei suoi limiti e delle sue condizioni di possibilità. Al punto che l’impresa stessa sarà assorbita dall’invenzione del trascendentale facendo tutt’uno con essa.

Per questo il film di Herzog non è altro che il “documentario” di come sia stato possibile realizzarlo; di come sia diventato esso stesso “possibile” mentre pativa la sfida focalizzata nel cuore della sua storia. Senza la documentazione del Problema, la storia si perde. Per questo Fitzcarraldo è un film di finzione nel quale la dimensione documentaria è essenziale: senza mostrare come si è costruita la sua zattera di salvataggio, la storia si perde, per la semplice ragione che la storia stessa potrà salvarsi solo facendosi parte di questa zattera e imbarcandosi su di essa. Facendosi storia di una nave che passa per la testa. Come rendere possibile l’impossibile? Che subito diventa: come mostrare l’impossibile? E che diventa ancora: come mostrare il processo estatico che ha condotto all’effrazione dell’impossibile e alla scoperta di un possibile? E nel cui “mostrare” si gioca l’essenziale del processo cinemato-grafico (tecnico-estatico) stesso? Mostrare che scava ed eccede ogni rappresentazione? […] Fitzcarraldo è la documentazione di un miracolo. Come documentare i miracoli? Ecco il Problema. Documentare i miracoli: non affare religioso ma problema immanente e quotidiano. Perché il miracolo è il possibile. E perché il possibile non viene dal cielo, non è qualcosa di soprannaturale, il dono della trascendenza. Il possibile è un dono dell’immanenza, la potenza sorgiva del piano d’immanenza cosmico-storico. Cosa può un corpo? Cosa può un fiore? Cosa può un archivio? Cosa può una semplice corrispondenza? Cosa può una relazione? Tutto ciò che possiamo è fare miracoli. Non ciò che dobbiamo o vogliamo. Ciò che “possiamo”. Inventare (vie di fuga) possibili in un orizzonte cosmico-storico (che tende a collassare). Ma proprio mentre “possiamo” i miracoli, i miracoli stessi ci sfuggono, si ritraggono nel loro segreto, nell’ineffabile che è il loro segreto. Per questo sarebbe fondamentale documentarli. Tutti i giorni dovremmo documentare i miracoli della nostra vita.

Per Herzog vivere cinematograficamente ha sempre significato “fare miracoli”, come dice testualmente il funambolo Philippe Petit raccontando il suo “colpo” alle Twin Towers, e che non a caso siede accanto al regista tedesco nella lezione inaugurale della sua Scuola di cinema (Filmstunde, Vienna 1991). Herzog potrebbe aver già sognato il sogno incontrato nel canovaccio, nello schema vuoto “Fitzcarraldo”. La nave che attraversa una montagna già sognata nelle montagne – i menhir scoperti anni prima da Herzog a Carnac – che si spostano come navi. In altri termini la conquista dell’inutile potrebbe essere già da sempre cominciata (perché è sempre stata una traversata “nel mezzo”): getto culturale sgorgato dagli abissi pulsionali, sfida tecnica emersa da un sognare da bambino. E in Herzog la conquista dell’inutile ha costantemente assunto l’aspetto di un’ardua sfida “balistica”. Sogno di una freccia che scocca da un arco, tracciando nell’aria la sua linea di fuoco. Pulsione di una via di fuga “pesantemente” analogica, e che prova sempre a ricominciare dalle cesure che spezzano la sua linea, che prova a farsi strada attraverso un orizzonte che tende sempre a collassare, come due montagne che crollano l’una sull’altra, o come una montagna che si erge fra due fiumi. Desiderio di erbeggiare attraverso l’immane forza di gravità cosmica. Spostare montagne come navi, spostare navi nel mezzo delle montagne. Miracoli comunque troppo “gravi”, troppo terrestri, se paragonati alla leggerezza aerea di quelli di Petit. Ma forse non è così. Perché forse, a ben guardare, le traversate di Petit sono gallerie di talpa scavate nel “pieno” delle cose. Conquista di un vuoto facendosi largo attraverso il crollo delle cose che satura l’orizzonte. Forse alla base della pulsione celestiale di Petit c’è una visione terribilmente “grave”: l’incubo apocalittico della trasformazione della Terra in un cumulo di rovine che inghiotte ogni possibile via di fuga. Una Terra senza bambini, senza sogni e senza giochi. Senza frecce che scoccano, senza navi che partono, senza montagne che si spostano. Una Terra senza possibile. Forse Petit, ad altre latitudini cosmico-storiche, aveva già sognato l’apocalisse delle Twins Towers, nel 2001, e la catastrofe di Notre Dame, nel 2019: l’incendio in cui andò distrutta la guglia che, durante una passeggiata notturna, gli era apparsa a testa in giù, come uno spicchio nero scavato fra i palazzi di Rue du chat qui pêche (la via più angusta di Parigi) e che sembravano sul punto di crollare gli uni sugli altri. È come se, nella sua visione onirica, Petit avesse pre-visto una via di fuga salvifica – la traversata fra le torri della cattedrale – sentendo l’urgenza di conquistare il vuoto già da sempre minacciato. Nel suo modo allucinato, Petit ha forse presentito la minaccia apocalittica che gravava sul destino delle Twins Towers e di Notre Dame, sentendo l’urgenza abissale di costruire delle zattere di salvezza. Zattere che, nonostante tutto, continuano a inseguire le loro tracce. Nonostante la catastrofe, esse disegnano ancora un cammino possibile. Il cammino cosmico-storico del possibile stesso. La conquista dell’inutile come conquista del vuoto. Vuoto come pienezza degli incontri possibili, ricettacolo informe di ogni possibile piano di connessione cosmico-storica. Infimo o immane, comunque interstiziale e perciò abissale. Punto d’infinita sospensione dal quale sorge il paesaggio in cui lasciamo tracce.

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