di Sara Nocent
Sono in un caffè di Trieste con un paio di amici: parole sparse, tre tazzine sul tavolo e una copia del giornale locale nell’angolo. La ignorerei, se non fosse che uno dei ragazzi è un giornalista e mi ha messo una certa curiosità. Mi attira una foto quadrata, in centro: leggo la didascalia sotto, c’è scritto “Tombati i sottopassi”. La rileggo, non penso di aver mai sentito questa espressione: “tombare i sottopassi”. Il suono mi piace, mi entra nella testa, decido quindi di leggere l’articolo quasi con urgenza. Apprendo che effettivamente sono stati “sanificati” (il titolo del pezzo usa questa espressione, solo all’apparenza più bonaria, rispetto al tono un po’ doom della didascalia) i sottopassi che da Piazza della Libertà permettevano di raggiungere la stazione di Trieste senza attraversare la strada principale che le separa e che porta verso il centro città. Il tombamento — come spiega prontamente il sindaco in un virgolettato — è dovuto al fatto che i sottopassi erano diventati la latrina dei migranti che vivono sotto la statua di Sissi. Curiosamente, l’altro sottopasso (quello dell’attraversamento tra il supermercato Pam e la stazione) è stato risparmiato dalla stessa sepoltura perenne perché è stato considerato fuori dalla “zona di rischio” di qualche decina di metri, e perciò un luogo “meno critico”.
Istantaneamente penso a tutte quelle volte che da studentessa li ho percorsi, a tutte le volte che sono scesa e salita da quei sottopassi. Con la pioggia e la bora, parlando con compagni di corso o correndo come una disperata piena di borse per non perdere il treno. Ma ora non ci sono più. L’articolo ci tiene subito a dire che il tombamento è definitivo. Non so voi, ma queste espressioni mi muovono qualcosa. Sarà che mi affascinano tutti quei verbi che, a volte, pur riguardando la morte vengono usati come transitivi: penso a “suicidare”, scelto magistralmente da Artaud in Van Gogh: il suicidato della società, a “tombare” appunto, o a “morire” usato come nel titolo del toccante film di qualche anno fa, dedicato al brutale omicidio di Federico Aldovrandi, È stato morto un ragazzo. Questi verbi che rovesciano in attività la passività implicita nella morte e nel morire mi affascinano, mi sorprendono, perché la morte dovrebbe essere il regno opaco dell’ineluttabilità, qualcosa che si subisce e basta, una pura passività, e invece queste espressioni sono in grado di farne brillare la violenza fosforescente, il perturbante lato attivo, il doppio fondo di verità.
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Poi li vedo. Tornando a casa gli passo proprio davanti. Le inferriate che delimitavano l’entrata al sottopasso sono rimaste, non sono state rimosse, racchiudono ora – senza motivo – un rettangolo di grigio scurissimo, una specie di lapide di cemento che ne sigilla ermeticamente l’entrata. Come la tessera di un enorme domino radioattivo lasciata lì sulla piazza. Mi colpisce il fatto che io non posso calpestarla, che non posso usare quella porzione di spazio recintato. Il sottopasso tombato sembra davvero la base di una tomba. Saranno poco più di tre metri di lunghezza per un metro di larghezza, ma le misure non mi inquietano più del colore: per associazione libera il mio pensiero va a una recente visita al Museo Egizio di Torino, e a quelle grandi tombe di basanite nera che ho visto nei corridoi. Una domanda allora mi afferra: “Chi è morto – o cosa deve morire – qui?
Ripenso a un amico che, durante una presentazione di Charta Sporca, ha detto che noi siamo i tombini della cultura, perché abbiamo il compito di ricordare a tutti che c’è un sotto, un impero di fogne senza il quale la vita sarebbe un caos. Ecco, vedendo quei sottopassi tombati ho dovuto fare davvero uno sforzo per pensare che ci fosse qualcosa di sotterraneo e a come doveva essere la vita in quell’underground, quanto doveva essere estremo il disagio per aver causato prima la decisione di chiuderlo, e poi addirittura quella di tombarlo. Forse è il destino di tutti i sottopassi, di tutti i tombini della cultura, quello di diventare ignorabili e calpestabili, perché soglie fragili verso mondi che – accogliendo il lercio delle nostre vite – alcuni vorrebbero tenere il più possibile nascosti. Della piazza triestina, e di queste strane lapidi che da poco vi campeggiano, mi colpisce proprio che queste porzioni di cemento non sono né ignorabili, né calpestabili, hanno un che di monumentale, esattamente come delle vere tombe. Mi ripeto allora: chi muore qui? Qui, penso, muore la cultura.
Ci è voluta qualche ora per capire cosa mi ha smosso quella strana visione a Trieste. Mi ha ricordato cosa vuol dire vivere nei sottopassi della cultura, l’importanza che ha scrivere per una rivista indipendente nonostante la morte che imperversa fuori. Perché la cultura indipendente – come i sottopassi di piazza Libertà – è stata tombata, resa clandestina proprio da quei contesti che si autoproclamano “culturali” (giornali, università, grandi festival). Muoversi nella cultura underground, scrivere, lottare e confrontarsi con gli amici dentro una rivista indipendente come Charta Sporca sono gesti per me politici, e allo stesso tempo di necessaria sopravvivenza. Perché la questione, qui, prende alla gola la vita.
Bisogna essere tombaroli per continuare a dire la verità. La carta è veramente sporca, dal momento che si fa carico di questa discesa nelle fogne, che non si autocensura nell’imperativo di non dire assolutamente niente, come accade in molti ambienti culturali che d’altronde assomigliano sempre più spesso a dei circoli canini in cui ci si annusa felicemente l’ano per capire se sei dei nostri. Una rivista indipendente, una carta sporca, è uno spazio in cui tutti possono far incontrare fatti e parole senza falsi pudori: fare cultura, come fare politica, non dovrebbe proprio partire dal cercare di “dire le cose”, così come stanno? E poi, se non si è d’accordo, si può litigare, e quando ci si incontra si può anche scontrarsi, o amarsi, o iniziare a cambiarle…
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La vita è politica, è sopravvivenza concreta in uno spazio che viene sempre di più violentato dall’avanzata della paura, dei fascismi, della seduzione del virtuale. Perché non c’è un cazzo di virtuale nel precariato, nel fare quattro lavori e non riuscire ad arrivare a fine mese, nel dividere un appartamento perché l’affitto costa troppo o nel vederselo sottratto per i turisti, nel pane che è carissimo, nella benzina che rincara e nei diritti che ci vengono tolti senza che nessuna piazza alzi un grido. Non c’è nulla di virtuale nel fascisti che ti manganellano per strada, nei corpi dei bambini che muoiono a Gaza, di fame o sotto le bombe, non c’è nulla di virtuale nei giovani mandati al massacro in Ucraina e nei messicani incarcerati nei santissimi Stati Uniti d’America. Chi vive nei sottopassi della cultura e della realtà lo sa bene, i problemi sono concreti e ci servono mani e teste pensanti per agire e stringersi intorno a una lotta comune.
Quando ho visto quei sottopassi tombati ho provato angoscia. Era come come se mi sussurrassero “sì, siamo riusciti a controllare anche questo”. Tre metri per uno, sembra proprio la poesia Mio fratello aviatore di Bertold Brecht: eccolo il nostro spazio vitale, la conquista che ci viene promessa dopo anni di lavoro e di sacrifici. Quanto è comodo, avere già il loculo che ci aspetta, come se davvero non ci fosse altro da fare che consumare e crepare. La vera sfida è non vivere nel desiderio di quella morte promessa. Nei sotterranei, nella cultura underground, a volte è più facile rendersi conto che la felicità vera è quella del raggio di sole che arriva e ti scotta la faccia, proprio quando tutt’intorno è buio. Sappiamo che quando a una presentazione hai già più di dieci persone, a volte più di venti, e con questa gente ci parli davvero, la vuoi incontrare e conoscere, allora è successo qualcosa: la cultura ha abbracciato la vita e forse è stato fatto qualcosa che ha contribuito a mantenere una testa ancora pensante (la mia, la nostra, prima di tutto). Esattamente il rovescio dei troppi festival drogati dai grossi finanziamenti privati, dove la gente viene anche a centinaia spesso solo per fare massa, per placare la FOMO e mostrare sui social o alla propria coscienza in cancrena che è ancora “parte di una cultura”.
Il pensiero critico non è una skill: è un’arma. L’intelligenza artificiale lo sa bene e il sistema socio-economico capitalista che l’ha allenata, con l’obiettivo di aumentare la produttività e l’efficienza di macchine e umani, non sta facendo altro che toglierci l’unica arma di cui avremmo davvero bisogno: fare cose insieme, e godercela. Collaborare con una rivista culturale spesso vuol dire anche aver voglia di mettere per iscritto, e condividere, dei pensieri che ci tormentano, delle linee di intuizioni ci saltellano nella mente e che vorremmo proprio che qualcuno seguisse, raccogliesse, o semplicemente discutesse. ChatGPT di fronte a tutto questo ci dice che non c’è bisogno di leggere una rivista e, ancora meno, di scrivere testi, perché tanto lo fa lei. Persino molti giornalisti, editor, scrittori, divulgatori, per fare il loro lavoro, si fanno ormai aiutare da ChatGPT: perché è più comodo. Ma come faremo quando la nostra capacità di dire sarà tombata, quando pensare e sbagliare verranno visti come peccati morali da eliminare a favore del conformismo virtuale?
Pasolini, probabilmente riprendendo le proteste del Black Power americano, invitava a gettare il corpo nella lotta. Ancora una volta, ridendo un po’, mi tocca dire che Pasolini è davvero attuale. L’unico antidoto allo spazio enorme che viene dato all’utilizzo dell’IA nel dibattito culturale (anche giustamente, perché sarebbe stupido non parlare di questa rivoluzione) è ascoltare, informarsi il più possibile, e poi non usarla per tutte quelle attività che richiedono un pensiero. Se poi per un attimo demistifichiamo anche il pensiero, potremmo scoprire che la risposta più forte alla schiavitù è proprio riconquistare il corpo, ovvero liberarlo sia dalla possessione aliena della coscienza sia dal dover essere efficiente quanto basta a renderci degli ottimi consumatori e dei lavoratori il più possibile in salute.
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E così torniamo a quella strana parola dell’inizio, all’idea che quei sottopassi – invasi dal piscio e dai rifiuti – andavano proprio “sanificati”, come recita l’articolo in un bell’omaggio alla retorica di cinque anni fa. Anche se, oggi come allora, la sanità non è la salute, e rincorrere un “fisico sano” (fisico che, ricordiamolo, è un concetto inventato nel diciannovesimo secolo in seno ai nazionalismi e pseudo-positivismi europei) non significa di per sé davvero prendersi globalmente cura della propria salute, che è in buona parte anche salute mentale. Qualche anno fa, scrivendo una postilla ansiogena alla mia lettera aperta ai ventenni, criticavo proprio il fatto che questo sistema economico e politico ci invita a essere il più possibile fit, a fare esercizio ogni giorno, anche solo per dieci minuti, per normalizzare invece completamente – su tutt’altro fronte – il fatto che ci sentiamo frustrati, sotto stress o, ancora meglio, in ansia. Perché l’ansia è quella condizione di tensione in prestazione che, nel mortificarti, ti mantiene attivo e, soprattutto, produttivo.
Sembra a volte davvero che le strade siano invase da morti viventi e persone tombate, dal viso grigio calato sul telefono, che se non stai attento ti centrano in pieno camminando. Anche quando non hanno un cellulare davanti, gli sguardi evaporano nel vuoto, già pienamente sanificati da qualsiasi residuo di desiderio di incontrare l’altro, di parlare e ridere insieme. Ecco, se c’è un’altra cosa che noi donne e uomini del sottosuolo facciamo spesso è ridere. Ridere con la parola e con il corpo, della lotta aspra che si gode e si sopporta insieme.
Cinque anni fa, Andrea Muni raccontava qui cosa significasse per lui “ridere la libertà” e fare parte di una rivista indipendente. All’epoca c’era il lockdown e incontrare l’altro era impossibile, potevamo solo ricordarci di avere un corpo, non solo minacciato dalla pandemia e oggetto di limitazioni e provvedimenti. Rischiavamo di dimenticare l’altro corpo che siamo: non quello della sanità, appunto, ma quello inteso come superficie infinita e desiderosa del contatto con l’altro, che non vede l’ora di sperperare i propri confini in un riso che non riesce a placarsi, che prende il sopravvento ed esonda, rivoluzionario, in quel testo gioioso e disperato della primavera del 2020. Quel riso io lo sento ancora. È ancora oggi necessario, perché il lockdown nelle teste non è finito, anzi, si sta facendo sempre più duro e restrittivo. C’era una frase nel pezzo di Andrea che non ho potuto toccare: “ci sono persone per cui la cultura e la vita sono la stessa cosa, persone per cui la cultura non ha altro senso e valore che quello di essere una parte della vita, un suo intensificatore”.
“Attraversamenti stradali poco pericolosi“
Ecco cosa non potranno mai tombare, penso. La cultura è la vita. Tutti i protagonisti della cultura lontana dal mainstream, tutte le riviste che continuano ad esistere grazie ai tanti che le fanno e che le leggono, tutti i giovani che sono riusciti a sopravvivere alla tanatoprassi di precisione operata dall’università, portano in sé il germe di quella vita bastarda, ridanciana e irriverente che è specchio di un certo modo di stare nella cultura stessa, e forse uno degli ultimi modi che abbiamo per continuare a resistere e protestare contro il tombamento. Non ci ammazzerete facilmente con le vostre frammentazioni politiche o con la povera cultura letteraria, bonaria e nazista, che tanto piace in Italia. A noi del sottosuolo la morte-in-vita non interessa e abbiamo ancora voglia di incontrare l’altro, di dargli spazio.
Quella piazza a Trieste è di tutti. Il problema non erano i sottopassi sporchi, ma la situazione davanti alla stazione e in Porto Vecchio, dove da tempo i migranti provenienti dalla rotta balcanica vivono all’addiaccio e sono aiutati e supportati in Piazza della Libertà da meritorie associazioni, che suppliscono all’indifferenza delle istituzioni. So che in quei sottopassi, finché non sono stati chiusi, c’erano anche realtà che organizzavano momenti di incontro con i migranti, durante i quali “si faceva cultura”, si parlava e suonava insieme. Quei sottopassi non esistono più, sono stati tombati, ma noi non siamo ancora stati tombati (i cittadini consapevoli, Charta Sporca, chi fa cultura indipendente, chi resiste e non rinuncia a fare comunità, in tutte le forme possibili).
Mi viene da ridere perché sulla pagina Wikipedia dedicata a Piazza della Libertà c’è ancora un paragrafetto dal titolo “Attraversamenti stradali poco pericolosi”, che elogia i sottopassi – ormai tombati – perché dagli anni Ottanta consentono di evitare i pericolosi attraversamenti pedonali sulla strada principale che, passando tra la stazione e Piazza Libertà, porta al centro città. Rido. Rido di gusto. Beh, non c’è niente di meno pericoloso di una tomba, penso… A meno che il morto non si svegli.