di Ilaria Moretti
Forse, ci dice André Aciman, desiderare qualcuno vale più di un’intera vita.
Chiamami col tuo nome (Guanda, 2008) narra la vicenda di Oliver, ventiquattrenne americano, giovane promessa della filosofia, che passa l’estate in Italia, ospite del professor Perlman che da anni offre ospitalità a dottorandi in fine tesi. In cambio di vitto, alloggio e una grande casa dove scrivere in santa pace, gli studenti dovranno aiutare l’insegnante in qualche attività di ricerca, poca cosa se confrontata alle sei settimane di vacanza in riviera. Per Elio, figlio dell’insegnante, è la puntuale scocciatura dell’estate: Oliver è l’ennesimo studente venuto a usurpargli la stanza, l’inquilino con cui condividere il bagno e la terrazza. Ma da subito, vedendolo scendere dal taxi, una camicia azzurra, “svolazzina”, Elio è rapito. Forse, si dice, è cominciato tutto da lì, da quel cappello di paglia, i bottoni aperti sul petto, occhiali da sole e “pelle ovunque”, i passi sulla ghiaia e quelle caviglie.
Elio passa giorni nell’indolenza, come in uno stato di veglia allucinata. Ci sono le letture precocissime, la scrittura della musica, è un ragazzo sveglio, dall’intelligenza sfrenata. Suona il pianoforte, conosce greco e latino, porta i suoi diciassette anni come fossero la traccia di un lungo apprendistato. Sbircia Oliver da sotto gli occhiali da sole, lo scruta, sognando tutto di lui, si abbarbica a pensieri inconfessabili, il desiderio gli divora lo stomaco e la lingua, come se lo avessero preso “a calci nella pancia e risucchiato il tessuto polmonare vivente fino all’ultimo brandello e prosciugato la bocca”. È un desiderio avido, feroce, un’ossessione che brucia – “perché fuoco fu la prima parola, e anche la più facile, che mi venne in mente” – che non dà tregua, eppure dolce, accompagnata dall’inconsapevole presagio che quei giorni d’attesa, la luce attraverso le foglie, le lunghe notti in apnea, nel letto, senza muoversi, avviluppato dal sogno-desiderio che la porta si apra e che lui compaia, altro non sono che memoria già scritta, nostalgia di un tempo non ancora vissuto eppure già svanito.
Elio ci prova a trattenere i minuti, le settimane di desiderio snervante, gli scenari sessuali costruiti attorno a quel corpo atletico, lo “sguardo d’acciaio”, i talloni, il torace, l’increspatura del costume. Come se un essere vivente, di fatto, potesse risolversi tutto lì, nei contorni netti di un’anatomia di odori e parola, sguardi, movimenti. Oliver che sfugge, che pare distante e vagamente cortese, che saluta tutti dicendo “Dopo!” come se niente gl’importasse, se non se stesso, la sua tesi su Eraclito, le corse al mattino presto e le lunghe nuotate. Oliver che accende gli umori di tutte le ragazze del paese, che tutti amano e a tutti sfugge, Oliver atteso a colazione, divorato mentre legge come una lucertola a bordo piscina, Oliver e i muscoli sodi, le lunghe sorsate di succo all’albicocca e le uova alla coque deglutite in un batter di ciglio. I giorni passano in una macerante corsa contro il tempo: Elio lo sa. Non si può fermare la macchina da presa, l’ossessione che sia troppo tardi è una spina conficcata nel petto, nella preghiera che quelle ore, trascorse accanto a Oliver, restino, si facciano di ghiaccio, si fermino senza proseguire più. Che la vita si condensi in una lunga giornata estiva, senza fine, fatta di studio, parole, camice azzurre svolazzanti, costumi da bagno per ogni stato d’umore, sonate al pianoforte e quegli occhi blu, quel petto. Oliver.
L’amore tra i due si espleta che è già tardi. Nasce dal primo istante ma è trattenuto ai limiti dell’estenuazione, permane inesploso fino alla collina di Monet. Dove Elio, dopo una passeggiata in bicicletta, al colmo dello strazio, traboccante e vorace, spiega a Oliver – nella quiete del suo posto segreto – che forse sì, c’è dell’altro, infinitamente altro. “Perché mi stai dicendo questo? – Perché pensavo dovessi saperlo. – Perché pensavi dovessi saperlo. – Perché voglio che tu sappia!” Comincia con un accenno velato, Oliver azzarda un bacio fugace, Elio gli si precipita addosso, famelico: “Dovevo capire”. Prosegue, l’amore, nell’ex camera di Elio, ora di Oliver, a mezzanotte, dopo un’agonia lunga settimane, e Aciman infiamma la penna, non tralascia dettagli di un amore che è dolorosissimo e sfacciato, senza freni, traboccante, avido e impudico e meraviglioso. Oliver e Elio, che si consumeranno la carne, le ore di sonno e di veglia per dieci giorni, una manciata di ore, vissute con la clessidra e con la strana convinzione di poter “fermare l’attimo” rubando sul futuro per poter vivere il presente. Poi l’estate finirà, Oliver prenderà l’aereo, lui, che era stato per Elio “me più di me stesso” e al contempo padre, amico, fratello, amante, figlio. Ci penserà il Professor Perlman a dare una buona parola, cogliendo il senso di quell’amore, invitando il figlio ad abitare la sofferenza come una possibilità, un mezzo per conoscersi e trattenere il ricordo, senza inaridirsi, evitando il rischio sentimentale di finire “in bancarotta a trent’anni”.
Si incroceranno, un po’ per caso un po’ per volere, nel corso del tempo. Brevi incontri formali: Oliver distaccato quasi come agli inizi e Elio, attonito, a osservare lo scorrere del tempo, presagendo già la beffa del caso. Due vite identiche, separate dall’idiozia del “dover essere”. Pare uno scherzo del destino. Un matrimonio, dei figli, una cattedra in America. Un matrimonio, dei figli. Era questa la vita voluta da Oliver? “È stato come un coma, ma preferisco chiamarla una vita parallela. Suona meglio”. Il perché non è dato saperlo, ma Elio capisce, durante un aperitivo sulle rive del fiume, che la vita avrebbe potuto e dovuto essere diversa, che non è tardi, anche se di anni ne sono passati quindici, anche se Oliver ha due figli e una vita rispettabile, borghese, tutte le cose al posto giusto. Eppure vorrebbe dirgli che “questa cosa che non fu mai ancor ci tenta”, che varrebbe la pena, ora, scompaginare i piani preordinati, lanciare in aria il mazzo di carte e urlare: abbiamo scherzato, riprendiamoci le nostre vite! Invece no, non si può riannodare il nastro, i giorni in riviera rappresentano un vago bruciore seppellito nella memoria, un’“apparizione di lucciole in un campo d’estate” ma, ripete Elio, “tornare indietro è falso. Andare avanti è falso. Far finta di niente è falso”. Non c’è soluzione. Non per due esseri che si chiamavano col proprio nome, non quando una vita è riavvolta attorno a una pellicola imperfetta, sfocata, con un grande bagliore verso il centro: il punto morto dove tutto avrebbe potuto essere e invece non è mai stato.